Premessa

Dalle pratiche mutualistiche a rivendicazioni comuni,
passando attraverso la riflessione, l’elaborazione e la scrittura collettiva

Dicono che il Coronavirus ci abbia catapultati tutt* sulla stessa barca. Per quanto accattivante possa sembrare questa metafora, non tutt* hanno avuto le stesse probabilità di restare a galla e tante persone stanno annaspando già da troppo tempo. Non vogliamo che a pagare il prezzo della crisi in corso siano, ancora una volta, i soggetti più vulnerabili. 

Ora che una minaccia reale, potenzialmente ubiqua e invisibile come il Covid ci ha insegnato la differenza tra paura e angoscia, rischiamo di diventare facili prede del panico. Le pagine che seguono sono il risultato dello sforzo comune di non cedere a una simile tentazione e di rigettare gli inviti più disparati a salvarsi da soli, magari a scapito degli altri. Abbiamo quindi deciso di organizzare le nostre passioni e intelligenze nella stesura collettiva di questo documento, consapevoli che le pratiche mutualistiche che abbiamo messo in campo in anni, mesi e settimane dovranno anche servire  a costruire un orizzonte di senso comune – un tempo si sarebbe detto una “cultura politica” – capace di delineare un’alternativa ecosocialista, femminista e democratica  alla normalità a cui eravamo abituat*. 

Attraverso la stesura di questo documento abbiamo iniziato a sperimentare un nuovo modo di costruire alleanze e sinergie – di fare rete, per l’appunto. L’identità dei soggetti che si sono attivati in questo processo di elaborazione e di stesura collettiva non è la premessa, ma il risultato dinamico e interattivo di un metodo di lavoro comune che parte da ideali di emancipazione comuni, impone di confrontarsi su contenuti programmatici spesso diversi fra loro e di raggiungere una sintesi su proposte concrete e interconnesse. Siamo convinti che la posta in gioco sia troppo alta per non unire l’umiltà delle pratiche mutualistiche con l’ambizioso tentativo di costruire una piattaforma programmatica comune, che abbia finalmente il coraggio di rigettare la rivendicazione di singole istanze e di integrarle in un quadro d’insieme. 

Ambizione, però, non è sinonimo di arroganza. In questi ultimi mesi ci siamo sforzat* di leggere, valorizzare, combinare e sviluppare il meglio delle proposte avanzate da intellettuali e piattaforme culturali in appelli e manifesti comparsi nelle scorse settimane. Gli ideatori di questo percorso comune di riflessione, elaborazione e scrittura collettiva hanno inoltre rinunciato al “monopolio della firma” per dare modo a tutte le realtà interessate di sentirsi protagoniste nella stesura di questo documento. Grazie alle proposte di integrazione che ci sono arrivate, la mole e la qualità del documento ci ha convinto a trasformarlo in un vero e proprio “Programma dell’alternativa”, capace di costruire una rete nazionale fra diverse realtà territoriali accomunate da pratiche mutualistiche e da una medesima cornice programmatica sul mondo nuovo da costruire, insieme.

La scommessa di questa versione aggiornata del documento è quella di mettere a fuoco le sfide che si profilano all’orizzonte a causa dell’emergenza sanitaria e, al contempo, trasformare questa fase emergenziale in un’occasione per imprimere una svolta emancipativa al presente: l’alternativa allo stato di emergenza che abbiamo vissuto non può consistere in un semplice ritorno alla normalità e neppure nell’accettazione acritica di qualsiasi novità. Vogliamo costruire insieme un altro modo di stare al mondo, per noi, per le generazioni passate e per quelle future. Un mondo nuovo in cui la libertà di ciascun* inizi dove comincia quella altrui, nel rispetto delle altre forme di vita che abitano l’unico pianeta a nostra disposizione.

Per agevolare la lettura di un documento così denso è stato inserito un abstract con i principali punti programmatici. Questa versione aggiornata diventerà la base da cui partire per organizzare cicli di incontri da trasmettere online in collaborazione con Il Corsaro per colmare lacune ancora esistenti e approfondire nodi e questioni cruciali ancora aperte. Nel documento sono stati evidenziati in rosso i nodi tematici attorno a cui potranno essere organizzati cicli di incontri, in collaborazione con le diverse realtà che hanno sollecitato integrazioni e proposte di modifica. In blu sono state evidenziate le questioni (ancora aperte) che saranno affrontate nei singoli incontri di questi cicli e che necessitano di approfondimenti maggiori e di una migliore elaborazione collettiva. Ciascun ciclo sarà coordinato da un/a referente, che sarà responsabile delle integrazioni da apportare al testo (mantenendo la coerenza  complessiva del testo) a seguito del dibattito innescato dagli incontri. 

Le realtà che volessero firmare il documento e/o proporsi per l’organizzazione di uno o più degli incontri in questione possono scrivere a memorandumcontrolacrisi@gmail.com

Abstract

Avevamo iniziato a scrivere questo documento  per richiamare l’attenzione sulla necessità ineludibile di una svolta radicale in materia di politiche economiche, finanziarie e sociali per far fronte alla crisi della domanda e dell’offerta provocata dall’emergenza sanitaria (1). In questa direzione vanno le misure eccezionali che proponiamo nella seconda parte del documento (2): dal reddito di quarantena – combinato alla sospensione affitti e mutui prima casa – al congelamento degli anticipi fiscali per i lavoratori autonomi, passando attraverso garanzie statali di credito bancario alle imprese vincolate alla partecipazione pubblica alle imprese, al coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e al mantenimento dei livelli occupazionali e, non ultima, la regolarizzazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici stranieri.

Non ci è bastato, però, proporre misure come queste, che continuiamo a ritenere indispensabili per far fronte alla possibilità – purtroppo concreta – che simili scenari emergenziali si ripresentino nel futuro. Più ci confrontavamo, più ci rendevamo conto che ad accomunarci era il desiderio di costruire un mondo nuovo. La terza, la quarta e la quinta parte di questo programma raccolgono le proposte che qui riassumiamo:

  1. un nuovo piano ecosostenibile di investimenti pubblici in settori cruciali dell’economia (scuola, università, ricerca e sviluppo, formazione professionale, sanità, assistenza all’infanzia e agli anziani, previdenza, edilizia residenziale e la mobilità sostenibile) fondato su un piano di nuove assunzioni di un milione di addetti qualificati nella pubblica amministrazione, sulla  riconversione ecologica della produzione e dei consumi e su una nuova politica occupazionale, basata sul rafforzamento della contrattazione nazionale, sull’introduzione di un salario minimo (tenuto conto dei minimi previsti dai contratti nazionali per innalzare le remunerazioni dei lavoratori e delle lavoratrici non coperti dai contratti nazionali) e, per i lavoratori e le lavoratrici autonom*, di un equo compenso, nonché di un orario di lavoro minimo garantito per prevenire il ricorso intensivo a part time involontari, sulla riduzione dei tempi di lavoro a parità di salario e dei contratti di lavoro in essere per allargare le tutele a tutti i lavoratori e le lavoratrici a prescindere dal contratto di lavoro e sul recupero cooperativistico delle imprese a rischio di fallimento;
  2. l’esigenza di un ripensamento radicale del rapporto fra mercati finanziari, BCE e istituzioni emittenti del debito per poter finanziare queste misure (sterilizzazione dei crediti maturati dalla BCE o, in subordine, emissione congiunta di titoli comuni perpetui – o a lunghissima scadenza – da parte dei paesi mediterranei più colpiti dalla crisi come Italia, Francia, Spagna, Portogallo/trasformazione del Recovery Fund in un’agenzia confederale del debito pubblico degli Stati, capace di emettere titoli Europei – eventualmente anche non mutualistici, ma a lunga scadenza e superamento del Fiscal Compact e degli attuali criteri di sostenibilità delle finanze pubbliche);
  3. un cambio di paradigma culturale e politico capace di delineare nuove prospettive di emancipazione, dentro e fuori i luoghi di lavoro, a partire da:
  • un nuovo welfare pubblico e universalistico, basato su investimenti pubblici per tutelare il diritto all’abitare (attraverso la riconversione degli edifici inutilizzati in edilizia pubblica) e alla sanità di tutt* e all’assistenza dei soggetti più fragili e non auto-sufficienti e l’istituzione di un reddito di base o di auto-determinazione, che consenta a chiunque di scegliere liberamente il lavoro e, contemporaneamente, di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario;
  • una riforma fiscale che riduca le tasse sui lavoratori e sulle lavoratrici – dipendenti ma anche autonomi e in pensione – spostando il peso sulle rendite, a partire da quelle finanziarie, e i grandi patrimoni, in primis quelli ereditati, e che nel contempo ristabilisca la progressività delle imposte su reddito e patrimoni. Una riforma generale impostata a questi principi dovrà nel contempo prevedere incentivi alle aziende con sede fiscale in Italia che reinvestono gli utili in innovazione tecnologica e in nuove assunzioni, contribuendo all’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, e misure come una web tax che imponga una giusta tassazione alle multinazionali che operano in Rete e hanno sede paesi esteri.

Programma dell’alternativa

Un percorso comune di riflessione, elaborazione, scrittura, pratiche, lotta e rivendicazione collettive

Il documento che segue è diviso in cinque sezioni, sintetizzabili in altrettanti slogan: a una breve introduzione iniziale seguono una parte dedicata all’Emergenza reddito e una più articolata, sintetizzabile nella formula “Più pubblico, meno privato” e incentrata su intervento pubblico ed economia cooperativa, una nuova politica del lavoro, e a una proposta di ecologia politica. La quarta sezione è dedicata all’Europa radicalmente diversa che vogliamo, mentre l’ultima parte raccoglie lo sforzo di rimettere “La dignità al primo posto” attraverso un nuovo modello di welfare, per una vera riforma fiscale e la tutela di un diritto internazionale alla fuga.

Come ogni antecedente storico, anche la crisi che stiamo vivendo rischia di portare allo scoperto le contraddizioni e i paradossi di teorie e politiche economiche dogmatiche e inadeguate: tali si sono rivelate le politiche neoliberali, accecate dalla fede nell’auto-regolazione dei mercati e dalla funzione ancillare assegnata allo Stato (salvo poi invocarne puntualmente l’intervento riparatore dopo l’irrompere di ogni crisi). Le politiche anti-espansive di austerity con cui in Europa si è risposto all’ultima crisi economico-finanziaria hanno eroso le strutture di welfare pubblico senza conseguire i risultati annunciati al costo di lacrime e sangue. Quella che ci apprestiamo a vivere è una crisi economica e sociale dalla portata inedita quanto dirompente. Pur essendo esogeno al sistema economico, il suo fattore scatenante finisce per amplificare i segnali di recessione apparsi prima della diffusione del virus.

A rendere imprevedibili gli sviluppi dell’attuale crisi è anche e soprattutto la portata dell’effetto domino scatenato dalla diffusione globale dell’emergenza sanitaria, la cui durata inciderà inevitabilmente sulla gravità della crisi in atto: la crisi generalizzata della domanda indotta dalla quarantena si aggiunge ai danni che questa ha inevitabilmente comportato all’offerta, anzitutto per quanto riguarda la carenza di beni di prima necessità per il settore sanitario (si pensi alle mascherine e ai respiratori).

A questi due rischi possiamo e dobbiamo rispondere mobilitando misure straordinarie (2) come il reddito di quarantena capaci di assicurare nell’immediato forme di protezione sociale universale, e politiche di pianificazione e di investimento pubblico (3), che coinvolgano gli Stati e — per quanto possibile — le istituzioni politiche ed economico-finanziarie dell’Unione Europea (Banca Europea Investimenti).

Le misure del governo italiano per fronteggiare le conseguenze economiche della crisi sanitaria sono state finora graduali e frammentate. Il Forum Disuguaglianze Diversità e il gruppo dell’Economia di quarantena hanno avanzato proposte coraggiose, che in questa sede ci proponiamo di presentare brevemente e di integrare. 

Nel breve periodo andrebbero realizzate due tipologie di interventi. In primo luogo, per non lasciare indietro nessuno andrebbe garantita l’universalità delle protezioni sociali, come proposto dal Forum Disuguaglianze e Diversità, rafforzando gli strumenti di welfare esistenti. Si tratterebbe di prolungare la cassa integrazione per i lavoratori dipendenti, prevedere un sostegno di emergenza (Sea) per i lavoratori autonomi che tenga conto dell’attività perduta e del reddito familiare e, in ultimo, di introdurre un reddito di emergenza per le 6-7 milioni di persone in condizioni di fragilità – lavoratori a tempo determinato, saltuari o a chiamata, irregolari o inoccupati (compresi gli immigrati irregolari presenti sul territorio italiano) – che oggi sono scoperti da ogni di tutela. L’erogazione del reddito potrebbe avvenire attraverso l’estensione del Reddito di Cittadinanza.

Il governo dovrebbe avere la lungimiranza di fare tesoro delle lezioni apprese e che si apprenderanno dalla crisi in corso e sviluppare un programma di emergenza per i periodi di quarantena. In questo modo, nel caso di una nuova pandemia, si potrebbe contare su adeguate misure di sicurezza sociale, senza dover emanare appositi provvedimenti d’urgenza. Come proposto dal gruppo dell’economia della quarantena si potrebbero proporre misure universali, applicabili a ogni attività economica e a ogni persona. Come sollevato dal gruppo dell’Economia di quarantena in linea col dibattito internazionale, le misure per le imprese nei periodi di lockdown dovrebbero concentrarsi sul “congelamento” della situazione, al fine di salvaguardare i livelli di occupazione e la capacità produttiva delle aziende, attraverso un intervento diretto dello Stato che tuteli l’interesse pubblico senza scaricare le perdite del privato sulla collettività. Per quanto riguarda le attività economiche andrebbe sviluppata un’assicurazione sociale per garantire la copertura delle uscite di cassa delle imprese. Per quanto riguarda le persone sarebbe necessario agire simultaneamente sulle entrate, garantendo a tutt* un reddito di quarantena, e sulle uscite, congelando le spese verso lo Stato e gli istituti finanziari e soprattutto compiere una scelta politicamente coraggiosa sospendendo gli affitti e i mutui sulla prima casa, dando corpo in modo rinnovato alle forme di programmazione e di economia mista previste nella nostra Costituzione.

Riteniamo che queste proposte emergenziali possano e debbano essere ulteriormente precisate e rafforzate tenendo conto della specificità dei soggetti beneficiari che si trovino in una condizione di necessità. Anzitutto la concessione delle garanzie statali alle banche per l’erogazione dei prestiti alle imprese dovrebbe essere controbilanciata dall’impegno a mantenere i livelli occupazionali. Le forme di sostegno al reddito andrebbero inoltre integrate con misure diversificate a seconda della categoria di lavoratori e lavoratrici interessate: nel caso dei lavoratori e delle lavoratrici autonom*, ad esempio, il reddito di quarantena andrebbe combinato con il congelamento degli anticipi dei versamenti fiscali da parte di coloro che siano impossibilitati a continuare la loro attività per via del calo o della mancanza di domanda; per tutelare i lavoratori e le lavoratrici dipendenti la richiesta dell’attivazione di queste misure da parte delle imprese dovrebbe inoltre prevedere il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali, così da  evitare fenomeni di opportunismo da parte della proprietà dell’impresa. Diventa inoltre fondamentale, all’interno di questo quadro emergenziale, provvedere alla regolarizzazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici immigrat*, sulle cui spalle grava il peso di lavori usuranti, precari e sottopagati (si pensi alla catena agroalimentare), nonché il lavoro di cura. Prima ancora che di una misura urgente per salvaguardare un’intera filiera produttiva, si tratta di una misura necessaria a tutelare i diritti di queste persone

Sebbene il recente quadro temporaneo attenui i limiti agli aiuti di Stato e i paletti posti dal Patto di stabilità, è oggi necessario aprire una riflessione complessiva sulla possibilità di estendere le clausole di salvaguardia e considerare un aumento dell’intervento pubblico nell’economia. È la stessa legge del lockdown a far emergere tutte le fragilità del modello transnazionale e autoregolato del libero mercato e, come conseguenza, a rendere palese una rinnovata esigenza di protagonismo statale nella programmazione delle politiche economiche e industriali. In una fase di prolungata crisi economica e sociale occorre uno sforzo ampio e coordinato per un piano ecosostenibile di investimenti pubblici nei settori chiave, ad alto valore aggiunto (e spesso ad alto rischio), per far ripartire l’occupazione e sostenere lo sviluppo dei territori tramite la creazione di nuovi mercati. 

[referente ciclo: da individuare]

Come sottolineato persino da fonti come l’FMI, la natura di questa recessione rende necessari interventi decisamente “intrusivi” degli stati nell’assicurare la produzione e la distribuzione di beni essenziali – non solo di quelli sanitari, visto il prolungarsi del lockdown e delle ricadute sulle catene del valore globali. Accanto a questi interventi, è necessario un nuovo protagonismo pubblico per il sostegno dell’innovazione e la fornitura di nuove e potenziate forme di servizio pubblico, a partire da scuola, università, ricerca e sviluppo, formazione professionale, sanità, assistenza all’infanzia e agli anziani, previdenza, edilizia residenziale e mobilità sostenibile, senza contare l’erogazione di beni comuni e servizi essenziali (acqua, energia, gas, rete fognaria, reti telefoniche). Imprescindibile, da questo punto di vista, è un piano di assunzioni di un milione di addetti qualificati nella pubblica amministrazione.

Vanno inoltre ripensate le partnership pubblico-private, le quali devono essere orientate alla produzione di beni pubblici e devono prevedere forme di redistribuzione sociale del valore generato dal contributo, in termini di investimenti, del settore pubblico. Onde prevenire derive clientelari e corruttive e favorire la formazione di una pubblica amministrazione competente ed efficiente sottoposta al controllo democratico, occorre controbilanciare queste misure con norme chiare che regolino il continuo passaggio di manager e banchieri da incarichi pubblici a ruoli di responsabilità all’interno delle aziende, come proposto dall’appello di Sbilanciamoci. Il modello dello “Stato imprenditore”, se coordinato a livello europeo (attraverso l’impiego e la promozione di comuni standard “al rialzo” sulla fornitura di beni e servizi pubblici), può rappresentare una spinta alla crescita comune e alla convergenza delle economie comunitarie (oltre che dei livelli salariali e delle pratiche di buona occupazione), ponendo un limite a possibili comportamenti opportunistici o conflittuali tra singole economie nazionali, i quali penalizzano prima di tutto i lavoratori e le lavoratrici dei diversi stati membri. 

Gli aiuti di Stato vanno considerati, soprattutto ora, come strumenti indispensabili per la ripresa di lungo periodo dell’Europa nel suo complesso, e vanno integrati alle tradizionali politiche di trasferimenti previsti dai Fondi strutturali. Proprio questa fase di crisi e di riorganizzazione potrebbe infatti rappresentare un momento propizio per porre il tema di una pianificazione e di un controllo realmente democratico dell’economia. Mai come oggi, considerando la sospensione transitoria da parte della Commissione europea del vincolo del 3% del Patto di Stabilità e la possibilità degli Stati membri di intervenire direttamente nell’economia con provvedimenti straordinari, risulterebbe praticabile una partecipazione diretta dello Stato nell’acquisizione e nella riconversione strategica degli stabilimenti in crisi. Il rafforzamento del ruolo dello Stato in economia – che appare ormai inevitabile – costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente per un miglioramento delle condizioni delle maggioranze sociali: per questo è necessario attivarsi per promuovere nuovi modelli di proprietà pubblica e di co-gestione democratica delle filiere, al fine di ricalibrare la produzione sui bisogni reali della società. 

In un’economia effettivamente ricondotta al controllo e alla pianificazione pubblica, diventa ancora più urgente incentivare le esperienze di recupero cooperativistico delle imprese a rischio di fallimento da parte dei lavoratori e delle lavoratrici. A fronte delle tante delocalizzazioni e dismissioni in Italia, migliaia di lavoratori e lavoratrici hanno scelto di lottare – attraverso assemblee, presidi, battaglie sindacali, occupazioni – per evitare che i mezzi di produzione venissero smantellati e, con questi, l’idea di futuro. Di fronte alla prospettiva di un ricollocamento individuale nel mercato del lavoro hanno preferito reinvestire collettivamente le loro competenze professionali e, in molti casi, rischiare la loro mobilità e il TFR, pur di garantire il capitale sociale di una nuova cooperativa in grado di riattivare la produttività dell’impresa. Le centinaia di esperienze di recupero industriale, sorte nelle province di tutto il Paese, si sono dimostrate già laboratori di riscatto sociale capaci di reagire alle disaggregazioni generate dalle pratiche spietate delle catene globali del valore. All’interno delle imprese recuperate sono sorte nuove esperienze di autogestione, che attendono solo di essere riconosciute, raccontate, valorizzate e potenziate attraverso diverse misure: dall’implementazione del fondo rotativo istituito dalla Legge Marcora (L. 49/1985) a sostegno del capitale sociale dei soci lavoratori all’anticipo delle spese relative alle nuove forniture di energia, passando attraverso la velocizzazione degli anticipi della mobilità dell’INPS. Le stesse rivendicazioni che oggi possiamo trovare nella risoluzione parlamentare 8/00229 del 29/03/2017 costruita proprio grazie al contributo diretto dei lavoratori e delle lavoratrici delle imprese recuperate. La validità di questa riflessione e degli strumenti descritti, era già manifesta dopo gli strascichi della crisi finanziaria del 2008 e, immaginiamo, lo sarà ancora di più quando le “proprietà” e gli azionisti chiederanno di conto e si ritroveranno a disconnettere le produzioni a seguito dell’attuale pandemia. Nuove chiusure e una rimodulazione delle catene del profitto si profilano all’orizzonte. Soprattutto se, negli aiuti di Stato concessi ai privati, non verranno posti vincoli e garanzie per i lavoratori e le lavoratrici. Inoltre, la ricerca empirica ci restituisce un prezioso suggerimento che sarebbe imperdonabile non approfondire. Per i lavoratori mossi dalla necessità del recupero delle attività produttive l’acquisizione della proprietà dello stabilimento risulta fino a oggi una pratica più imposta che desiderata. Nelle inchieste in fabbrica, infatti, gli operai e le operaie sperimentano le loro azioni per il lavoro e la riattivazione produttiva del ramo d’impresa, più che per l’ottenimento della proprietà diretta dello stabilimento. La faticosa costruzione del capitale sociale per i lavoratori che –ricordiamolo sempre– sono in lotta contro l’esclusione, risente del quasi obbligo, voluto anche dalle pratiche di sostegno alla cooperativa operate da CFI, dell’acquisizione diretta della proprietà. Considerando la straordinarietà delle condizioni attuali e i minori vincoli nella gestione dei bilanci nazionali registrati a livello europeo, la riproposizione del controllo statale dei processi economici potrebbe, dunque, agevolare le iniziative di recupero industriale e l’agire democratico dei produttori cooperativi. Si determinerebbe così una rinnovata attualità di alcune delle più avanzate disposizioni della nostra Costituzione economica, vale a dire gli articoli 43, 45 e 46 della Carta. Le imprese recuperate nei territori di tutta Italia sono, dunque, un fatto sociale in grado di suggerire pratiche economiche e sperimentali di gestione compatibili con l’auspicabile protagonismo statale dei tempi che verranno.

[referente ciclo: Simone Fana]

Più in generale, si rende necessaria una nuova politica del lavoro, che combini in una prospettiva integrata queste quattro misure: 

  • rafforzamento della contrattazione nazionale attraverso l’imposizione della validità dei contratti nazionali firmati dalle sigle sindacali più rappresentative (in base ai voti dei lavoratori e delle lavoratrici);
  • riforma dei contratti di lavoro in essere per allargare le tutele a tutti i lavoratori e le lavoratrici a prescindere dal contratto di lavoro. Questo obiettivo può essere perseguito anche rendendo i contratti atipici più costosi del contratto a tempo indeterminato attraverso un sistema di bonus e malus sul modello dell’addizionale Naspi, e imporre limiti al numero massimo di contratti atipici attivabili in proporzione al personale a tempo indeterminato in forza. Occorre cancellare tutti i rapporti di lavoro che hanno allargato le maglie della precarietà: dal contratto di somministrazione, allo staff leasing, dal contratto a chiamata alle prestazioni occasionali. Devono essere aboliti i tirocini formativi che hanno generato solo manodopera a basso costo e garantito i profitti delle imprese. La razionalizzazione delle tipologie contrattuali deve portare a quattro tipologie: il contratto a tempo indeterminato, il contratto a tempo determinato con le causali e la riduzione a tre proroghe nell’arco di 24 mesi, il contratto di apprendistato e la collaborazione coordinata e continuativa.
  • introduzione di un salario minimo (tenuto conto dei minimi previsti dai contratti nazionali) sganciato dai rapporti di forza asimmetrici fra proprietà aziendale e rappresentanze sindacali per innalzare le remunerazioni e le tutele dei lavoratori non coperti dai contratti nazionali e, per i lavoratori e le lavortrici autonom*, di un equo compenso (con valori maggiorati rispetto ai minimi previsti per i lavoratori dipendenti al fine di evitare forme di dumping salariale, scoraggiare il finto lavoro autonomo, e garantire una retribuzione dignitosa a tutti i lavoratori);
  • riduzione dei tempi di lavoro a parità di salario per estendere l’occupazione e favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, rendendo peraltro possibile la formazione permanente per i lavoratori e le lavoratrici. Come argomentiamo nel finale di questo documento, le risorse necessarie a ridurre l’orario di lavoro a parità di salario potrebbero essere attinte proprio dai nuovi strumenti di protezione sociale come il reddito di base, che oggi più che mai si rendono necessari soprattutto per quei lavoratori/trici precari/e e meno tutelati.
  • introduzione di un orario di lavoro minimo garantito per prevenire il ricorso intensivo a part time involontari, a beneficio di quei 5 milioni di lavoratori e lavoratrici poveri con reddito annuo inferiore ai 10.000 euro, il 70 % dei quali è vive di contratti di breve durata o al di sotto delle 18 ore lavorative settimanali (soprattutto nei settori del turismo e della grande distribuzione). 
  • introduzione di forme di trasparenza efficaci sia sulle retribuzioni per genere, sia sul personale inquadrato per tipologia contrattuale per scoraggiare l’abuso di contratti atipici e il ricorso al lavoro nero, a partire da una certificazione obbligatoria per il lavoro autonomo occasionale.

[referente ciclo: da individuare]

Oltre a creare nuovi posti di lavoro attraverso la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e nuove assunzioni in settori cruciali dell’economia e dei servizi pubblici, il nuovo piano di investimenti pubblici e le annesse politiche occupazionali dovranno essere orientate verso una vera e propria riconversione ecologica, verso una “economia verde” e, più in generale, verso modelli di sviluppo inclusivi e sostenibili. Se molti impieghi/mestieri rischiano di essere spazzati via per sempre da questa crisi, l’intervento visibile dello stato nelle sue diverse forme deve contribuire a sostituirli con altri impieghi/mestieri, fondamentali per ricostruire un’economia e una società più eque e sostenibili, oltre che meglio retribuiti. Occorre pertanto orientare queste politiche occupazionali in direzione di misure capaci di rimediare ai danni causati dalla sovrapproduzione di scarti all’origine dell’inquinamento atmosferico, delle isole di plastica negli oceani, dell’avvelenamento del suolo. L’intero ciclo di vita delle merci va ripensato e riorganizzato superando la “cultura dello scarto” in direzione di un’“economia circolare” che si avvicini all’obiettivo di “rifiuti zero”, favorendo il recupero e il riuso dei materiali dismessi e moltiplicando gli impianti di riciclaggio al posto di inceneritori e discariche: quelli che oggi siamo abituati a concepire e chiamare “scarti” possono diventare risorse da reinvestire nel ciclo produttivo e nel consumo. Occorre inoltre incentivare la produzione energetica da fonti rinnovabili, la riqualificazione energetica degli edifici e una mobilità sostenibile, capace di ridurre drasticamente le emissioni di CO2 e delle cosiddette polveri sottili. Gli investimenti diretti e le esenzioni fiscali a supporto di queste innovazioni devono accompagnarsi alla progressiva eliminazione dei miliardi di sussidi pubblici erogati a sostegno di attività fondate su combustibili fossili e dannose per l’ambiente perché. In questa direzione va la proposta di Sbilanciamoci per un’Italia in salute, giusta e sostenibile: “A parità di imposizione fiscale complessiva, occorre spostare il carico fiscale verso un ampio uso di tasse ambientali; in questo modo si possono “correggere” i prezzi dei beni e spingere produttori e consumatori a comportamenti più sostenibili”.

In questa direzione vanno lintroduzione di una tassa sugli imballaggi e di una carbon tax richiamate nel paragrafo finale di questo documento: si tratta di due misure che incentiverebbero gli investimenti privati a favore dell’abbattimento dell’impronta ecologica della produzione. Far ricadere sulle aziende il costo sociale dello spostamento dei lavoratori (sia attraverso una carbon tax sullo spostamento, sia attraverso il riconoscimento del tempo di spostamento come orario lavorativo) è una modalità per stimolare l’adozione massiccia del telelavoro (dove possibile) e la sperimentazione di sistemi di trasporto alternativi a quelli attuali; spostare a monte, sulla produzione, la tassazione per lo smaltimento degli imballaggi favorirebbe inoltre l’adozione di soluzioni innovative e ridurrebbe naturalmente i costi sociali ed ambientali della gestione dei rifiuti.

Le città e i contesti metropolitani non possono e non devono essere gli unici teatri di questa svolta ecologica. La riconversione ecologica dell’economia deve riservare un posto centrale all’agroecologia e al riequilibrio demografico per rimediare alla congestione della pianura a discapito di zone collinari e montane e per invertire lo sfruttamento intensivo del territorio alla base dell’agricoltura e dell’allevamento convenzionali. L’agroeconomia rappresenta quindi un settore cruciale per questo piano ecosostenibile di investimenti pubblici: bisogna puntare sull’agricoltura biologica – con produzioni sostenibili e di piccola scala – sulla chimica verde.

[referente ciclo: Giuseppe Montalbano]

Oggi, proprio nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria che non conosce confini, l’Unione Europea rischia di collassare soffocata dalla logica competitiva inscritta nelle sue stesse istituzioni. Quello a cui stiamo assistendo in Europa oggi è, a ben vedere, una sorta di auto-sabotaggio istituzionale operante sin dall’inizio nella logica dell’integrazione monetaria: il dumping fiscale di alcuni paesi non è soltanto il prodotto dell’opportunismo di alcuni Stati nord Europei, ma l’inevitabile conseguenza del disallineamento fra unione monetaria e unione fiscale. Lo scontro istituzionale tra la Corte costituzionale tedesca e la Corte di giustizia europea sul Quantitative Easing della BCE pone nuovamente la questione della legittimità e controllo democratico della costruzione europea. Rimettere radicalmente in questione i presupposti e il disegno della costruzione europea significa adesso come non mai porre le condizioni perché questa crisi non venga pagata ancora una volta dai soggetti più vulnerabili per l’esclusivo vantaggio del grande capitale. Per questo è necessario tenere assieme una prospettiva di sistema, che possa indicare la direzione di un ripensamento generale del modello di integrazione europeo, con quella delle proposte concrete da realizzare nell’immediato per porre almeno le prime premesse di un cambiamento possibile.

L’approccio adottato e le misure sinora in campo per fronteggiare la crisi non intaccano le debolezze strutturali dell’unione monetaria, presentando quindi con il rischio concreto di “rinviare” a un futuro non troppo lontano i nodi problematici che stanno già venendo al pettine. Ancora una volta il ricorso a politiche monetarie straordinarie da parte della BCE rappresenta il principale strumento per contenere l’immediato precipitare della crisi nell’euro-periferia e, allo stesso tempo, il più grande limite della risposta europea. Il nuovo e più ambizioso programma di Quantitative Easing, unitamente alla scelta della BCE di allentare di fatto la regola del Capital Key e di includere anche i titoli di Stato al di sotto del rating di investimento, si scontrano in questi giorni con l’aumento dello spread per i titoli di Italia e Spagna, segno dei limiti delle politiche straordinarie della BCE nel rassicurare i mercati sul medio-lungo periodo. Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) ha già dato prova della propria inadeguatezza a seguito della crisi greca, quando un paese membro dell’Unione Europea è stato trattato alla stregua di un “cattivo privato cittadino” incapace di tenere in ordine i conti familiari. Quand’anche venissero tolte le stesse condizionalità imposte alla Grecia, l’Italia e i paesi che accettassero i prestiti del MES finirebbero inevitabilmente per vedere esponenzialmente aggravata la situazione relativa al loro debito pubblico. Infine, anche qualora venisse aggirata la «rigorosa condizionalità» i fondi venissero vincolati a spese sanitarie, le condizioni rischierebbero di essere modificate successivamente dalla Commissione e dai governi creditori, potenzialmente anche contro il parere del paese. L’ipotesi di una mutualizzazione dei debiti sovrani attraverso l’emissione di Eurobond o CoronaBond è stata finora osteggiata in Europa, trattandosi di una misura che obbligherebbe i Paesi creditori a “pagare”, con le tasche dei propri contribuenti, per i debiti dei Paesi dell’europeriferia, in un gioco a somma zero. Mai come oggi l’interesse a cooperare sarebbe, tanto per i popoli, quanto per le prospettive economiche di medio termine, di gran lunga superiore all’interesse a competere. La sostenibilità dell’integrazione economica europea dipende, ieri come adesso, dalla capacità di trovare la quadra fra la riduzione delle asimmetrie fra gli Stati membri e la parallela lotta delle classi lavoratrici all’interno dei singoli Paesi. Da questo punto di vista deve restare centrale la ricostruzione di una prospettiva di lotta internazionalistica contro la competizione dei capitali nazionali che l’unione monetaria, invece che risolvere, ha finito per inasprire ulteriormente, imponendo un modello mercantilista basato sulla compressione salariale che danneggia i lavoratori tanto dei paesi “debitori”, quanto di quelli “creditori”. 

Mentre in Italia vengono tessute le lodi del cosiddetto Recovery Fund senza che ancora di conoscano i dettagli delle linee di credito, del fondo SURE contro la disoccupazione e dei prestiti garantiti dalla Banca europea degli investimenti, è alla radicalità di strumenti utili a ridisegnare il rapporto fra mercati finanziari, BCE e le istituzioni emittenti del debito pubblico che dovremmo volgere la nostra attenzione. Finora tutte le proposte sul tavolo (SURE, BEI e MES) prevedono solo linee di credito a tassi agevolati, ma nessuna risorsa aggiuntiva.

Ogni ipotesi che implichi un aumento del debito pubblico dei singoli Stati membri, lasciando gli stessi alla disciplina dei mercati finanziari e senza una rete di salvaguardia adeguata a livello europeo o nazionale, non potrà che determinare un ritorno delle politiche di austerità e un aumento delle diseguaglianze sociali.   

Un’ipotesi possibile nell’immediato per mobilitare le risorse necessarie su scala europea potrebbe consistere nella sterilizzazione di una parte dei crediti – non, semplicemente, dei titoli del debito pubblico – maturati dalla BCE nei confronti dei diversi Stati all’interno delle operazioni di acquisto sui mercati secondari nel quadro del Quantitative Easing. In tal modo verrebbe contenuto l’inevitabile aumento di deficit e di debito/PIL nazionale a cui andranno incontro i diversi paesi europei e che potrebbe portare ad una nuova crisi debitoria nell’Eurozona. Una proposta che in tal senso meriterebbe di essere approfondita è, ad esempio, quella avanzata da Baptiste Bridonneau e Laurence Scialom – entrambi economisti e docenti all’Università di Parigi-Nanterre – circa una cancellazione parziale dei debiti contratti dagli Stati verso la BCE e che potrebbe essere deliberata autonomamente dal consiglio della BCE: già ora, in quanto autorità formalmente indipendente, quest’ultima potrebbe infatti procedere all’annullamento senza dover necessariamente passare per l’unanimità dei paesi – come nel caso dell’emissione di Eurobond – ma semplicemente ottenendo la maggioranza dei due terzi nel consiglio.

Simili misure dovrebbero avere come loro orizzonte ultimo una riforma profonda della BCE e dell’Unione monetaria, tale da permettere una monetizzazione del debito pubblico degli Stati dell’Eurozona, facendo della BCE l’istituzione prestatrice di ultima istanza, sottoposta al primato dell’indirizzo politico espresso dai Parlamenti. Quest’ultima sarebbe l’ipotesi più efficace e risolutiva, ma sappiamo bene che implicherebbe una riforma dello statuto della BCE per consentire l’acquisto dei titoli direttamente sul mercato primario: nonostante venga ormai invocata anche da autorevoli  economisti ortodossi come Olivier Blanchard o Paul De Grauwe, però, una prospettiva del genere non pare essere un’opzione realistica nell’immediato, considerati i rapporti di forza tra paesi membri dell’UE.

Per questo, oltre alle proposte di revisione più radicali, è necessario confrontarsi con le proposte in campo. Alla resa rispetto a compromessi esistenti ma poco desiderabili e all’impotenza di soluzioni radicali ma attualmente improbabili è possibile contrapporre nell’immediato l’emissione congiunta di titoli comuni perpetui – o a lunghissima scadenza – da parte dei paesi mediterranei più colpiti dalla crisi (Italia, Francia, Spagna, Portogallo) che verrebbero acquistati dalla BCE sul mercato secondario. In tal modo non si violerebbe l’art. 123 del TFUE e si garantirebbero sufficienti spazi di manovra fiscale a questi Stati. Questa opzione potrebbe inoltre contribuire a coalizzare gli interessi di quei paesi “debitori” che maggiormente hanno subito e subiscono gli effetti distruttivi delle politiche di austerità, così da superare il vicolo cieco di soluzioni nazionaliste alle disfunzioni dell’Eurozona.

Rispetto, invece, alla proposta attualmente al centro delle trattative, il famoso Recovery Fund, bisognerebbe innanzitutto garantire linee di finanziamento diretto, evitando che la sua implementazione si risolva in un nuovo organo di emissione di ulteriori prestiti agli Stati. Esso dovrebbe diventare una vera e propria agenzia fiscale europea, capace di emettere titoli Europei a lunga scadenza per prevenire perlomeno il rischio di una crisi del debito sovrano come quella del 2013. Rispetto a questa ipotesi sarebbe però di fondamentale importanza stabilire che i trasferimenti del fondo non siano soggetti a condizionali, affinché questi non divengano uno strumento di ricatto per l’imposizione di riforme strutturali ai paesi. A tal fine, è importante iniziare a porre con forza nel dibattito pubblico europeo la necessità di superare tanto il Fiscal Compact (bocciato dal parlamento europeo già nel 2018) e i criteri di sostenibilità delle finanze pubbliche, attualmente basati su parametri inaffidabili come il Pil potenziale e l’output gap.

La svolta non può consistere semplicemente in un ritorno al passato, ma in una radicale messa in discussione delle politiche economiche e sociali a cui eravamo stat* abituat* prima dell’emergenza sanitaria. Le misure che proponiamo intendono quindi andare oltre l’emergenza sanitaria.

[referente ciclo: da individuare]

Un’altra tensione che la fase emergenziale ha fatto riemergere in tutta la sua forza è quella tra sicurezza sociale e accumulazione. Le politiche liberiste di taglieggiamento di welfare e servizi pubblici hanno infatti messo sotto attacco il diritto universale ad un’esistenza dignitosa. È necessario, in questo quadro, riaffermare la centralità del welfare e della sicurezza sociale, non più subordinati al mercato o demandati alle singole aziende o alle disponibilità economiche delle famiglie. La crescita delle disuguaglianze e delle situazioni di disparità, ulteriormente acuita dall’emergenza, ci costringono a cogliere l’urgenza di ripensare il welfare in senso universale, costruendo un argine invalicabile a tutela della dignità della persona. Fondamentali, in questo senso, sono gli investimenti pubblici per tutelare il diritto alla salute, alla conoscenza, all’abitare, alla sanità di tutt* e all’assistenza dei soggetti più fragili e non auto-sufficienti e l’istituzione di un reddito di base o di auto-determinazione, che consenta a chiunque di scegliere liberamente il lavoro e, contemporaneamente, di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. 

Come ci ha insegnato questa emergenza, la formazione, il sapere, la ricerca e la salute devono diventare i principali settori di investimento di questo nuovo piano economico. Occorre puntare su una politica della salute che restituisca al servizio sanitario nazionale la centralità che è stata lungamente intaccata dalla logica applicata  della mercificazione del diritto alla salute e della privatizzazione dei servizi. Occorre quindi ripartire dalla prevenzione e dalla creazione di una rete di presidi socio-sanitari diffusi a livello territoriale. Oltre a ridurre i costi complessivi, un’assistenza socio-sanitaria egualitaria e universalistica garantirebbe a tutt* le stesse opportunità di soddisfare i loro bisogni fondamentali, al di là del loro potere d’acquisto nel “mercato della salute”.

Soprattutto in una fase critica come quella che si profila all’orizzonte, occorre ribadire con forza la necessità di investimenti pubblici per la costruzione di nuove case popolari senza per questo insistere nel consumo del suolo, puntando alla riconversione degli edifici inutilizzati in edilizia pubblica, compresi quelli ubicati nel centro delle città italiane.

Occorre restituire alla scuola, all’università e alla ricerca la centralità che una lunga stagione di controriforme ha profondamente compromesso. Le nuove assunzioni del personale precario coinvolto in ciascuno di questi settori è la premessa di qualunque ipotesi di riforma.

La pandemia ha fatto riaffiorare la centralità del lavoro di cura e di riproduzione sociale, appannaggio soprattutto delle donne. È l’intero sistema di welfare a dover essere ripensato e ciò vale sia per il lavoro di cura già remunerato (male), sia per l’opportunità (non ancora) concessa a qualsiasi soggetto (non solo femminile) di decidere liberamente se, come e quanto occuparsi informalmente del lavoro di cura all’interno della propria cerchia affettiva.

Già il movimento “Non una di meno”, negli ultimi anni, ha rivendicato un welfare di autodeterminazione per uscire dal ricatto della violenza e della precarietà, in una prospettiva aperta alle differenze di genere e ai bisogni individuali. L’istituzione di un reddito di base, allora, ha un carattere non meramente emergenziale. Esso diviene un obiettivo centrale anche e soprattutto oltre la crisi in corso, in direzione di un superamento della categorialità e della parzialità del nostro welfare. Esso riconoscerebbe la possibilità universale di autodeterminarsi e di dar forma alle condizioni della vita in comune, dando nuova linfa alla solidarietà e alla democrazia. Molte rivendicazioni ed esperienze, in queste settimane, vanno in questa direzione.

Concepire il reddito di base come uno strumento di emancipazione e, dunque, come un rimedio al ricatto strutturale di un mercato del lavoro che subordina i diritti al profitto significa anche e soprattutto rimettere al centro il nesso fra libertà e lavoro, anziché concepire questi due termini in maniera esclusiva. Non si tratta, in altri termini, di sostituire il reddito al lavoro, ma di contribuire — attraverso il reddito di autodeterminazione — a riequilibrare i rapporti di forza fra capitale e lavoro a favore di quest’ultimo. Anziché rappresentare una resa di fronte alla presunta fine del lavoro e ai processi di automazione o all’assenza di un piano pubblico di investimenti, questa misura andrebbe concepita non come un semplice strumento di lotta alla povertà, ma come uno strumento di ripoliticizzazione del lavoro esterno ai luoghi di lavoro: oltre a liberare l’aspirante lavoratore/trice da bisogni materiali, uno strumento come il reddito di base consentirebbe di scegliere liberalmente un lavoro (non qualsiasi lavoro), di valorizzare attività non riconosciute a livello materiale e culturale come il lavoro di cura e di risarcire – grazie alla web tax di cui sopra – il valore prodotto da attività non remunerate svolte dai prosumers come la condivisione di dati su internet. Consentendo all’aspirante lavoratore e lavoratrice di scegliere liberamente il lavoro, il reddito di base porrebbe inoltre fine alla stigmatizzazione a cui sono sottoposti i soggetti che percepiscono forme di reddito condizionate all’obbligo di accettare il reinserimento lavorativo a qualsiasi costo o a condizioni materiali assai prossime alla povertà assoluta. Verrebbero finalmente gettate le basi per rigettare l’ingiunzione neoliberale a diventare imprenditori di se stessi rivolta a generazioni di precari/e, che finisce per scaricare su chi lavora il peso di eventuali fallimenti ed esonerare le strutture pubbliche del welfare da ogni intervento di protezione sociale. Di più: fornirebbe le risorse necessarie ad attuare politiche di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario senza pesare sulle spalle dei lavoratori/trici e delle casse dello stato, come auspicato da recenti proposte che vanno in questa direzione (ma limitatamente al reddito di cittadinanza). Non ultimo, consentirebbe di riformare in senso universalistico il welfare anche a beneficio dei pensionati, soprattutto a seguito del passaggio al sistema contributivo che rischia di assicurare un reddito dignitoso solo ai lavoratori e alle lavoratrici che hanno potuto godere di rapporti di lavoro continuativi e versato elevate contribuzioni. 

Se chiediamo un’unione fiscale a livello europeo non c’è alcuna ragione per non fare lo stesso sulla difesa e, quindi sull’abbattimento delle spese militari di ciascun paese. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo nell’immediato, tuttavia, non deve diventare un alibi per non operare in questo senso già da ora a livello nazionale. Sappiamo che contro questa misura si schiereranno i sedicenti difensori dei posti di lavoro che andrebbero persi: la proposta di una riconversione ecologica della produzione finanziata da investimenti pubblici serve anche a evitare futili obiezioni come questa. 

[referente ciclo: Giacomo Gabbuti]

La necessità di reperire risorse economiche e liquidità finanziaria, così da assicurare a tutt* le misure di emergenza proposte e, soprattutto, avviare un piano pubblico ed ecosostenibile di investimenti pubblici per una nuova politica del lavoro e un nuovo welfare, non può essere la fine del ragionamento, quanto la premessa di un ripensamento radicale delle politiche fiscali in essere. 

Occorre una politica fortemente redistributiva in grado di riequilibrare la bilancia delle disuguaglianze sociali esistenti nel nostro Paese. Secondo l’ultimo rapporto Oxfam, in Italia il 10% della popolazione più ricca detiene più del 50% della ricchezza totale del paese. Stando alle stime della Banca d’Italia, la ricchezza privata dell’Italia ammonta all’incirca a quattro volte il debito pubblico: 9.700 miliardi di euro (dati 2017). Se si prescinde dai patrimoni immobiliari, la sola ricchezza finanziaria consistente in denaro depositato in conti correnti, azioni ed obbligazioni ammonta a circa a 4.300 miliardi di euro. Una politica fiscale più equa e progressiva deve ridurre la pressione fiscale nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici — dipendenti ma anche autonomi e in pensione — , sulle cui spalle grava ad oggi la maggior parte del carico fiscale; e, in subordine, in assenza di un’unione fiscale europea che vada in questa direzione, anche delle aziende con sede fiscale in Italia che reinvestono gli utili in innovazione tecnologica e in nuove assunzioni, contribuendo a ridurre l’orario di lavoro a parità di salario.

Come proposto da Sbilanciamoci, per ridurre le disuguaglianze è inoltre possibile stabilire che il rapporto fra il reddito da lavoro più alto e quello più basso in tutti i settori pubblici non sia superiore a 20 volte. È possibile incentivare anche il settore privato ad adeguarsi a questo standard escludendo dagli appalti pubblici e dagli incentivi e sgravi fiscali tutte le imprese che non si conformino a questo vincolo.

Questa drastica riduzione della pressione fiscale può e deve essere ottenuta attraverso un nuovo patto sociale, che sposti il peso della fiscalità dal lavoro ai profitti, alle rendite, alle eredità e all’evasione fiscale  e chieda a quella minoranza della popolazione che ha di più – all’incirca 2.000 miliardi di euro tra denaro e titoli finanziari – di dare di più per contribuire al benessere della comunità. La sostenibilità di una riforma fiscale di questa portata dovrebbe essere assicurata da quattro misure:

  • una radicale revisione della tassazione sui redditi in senso realmente progressivo, che elimini lo scandaloso accanimento fiscale sui redditi medio-bassi a beneficio di quelli più alti e sostituisca le cinque aliquote esistenti (l’aliquota massima del 43% ora si applica a tutti i redditi superiori ai 75.000 euro) con un numero crescente di aliquote proporzionali al reddito di ciascun* e all’inflazione, e al contempo riallarghi la base imponibile ai redditi non da lavoro – rendite finanziarie e immobiliari, profitti – oggetto negli anni di diversi regimi forfettari (vere e proprie flat tax);
  • l’introduzione di una tassazione sui patrimoni mobiliari e immobiliari  (a partire da quelli ereditati), al di sopra di soglie tali da migliorare la qualità di vita di chi pagherà di meno senza intaccare quella di chi dovrà pagare di più ;
  • l’introduzione di una web tax per porre fine all’immunità fiscale delle multinazionali che operano nel digitale e che, pur creando valore nel nostro paese (soprattutto nell’uso dei dati), non sono soggette al nostro regime fiscale.
  • lintroduzione di una tassa sugli imballaggi composti da materiali altamente inquinanti come la plastica;
  • lintroduzione di una carbon tax per le aziende che non attivino la possibilità del telelavoro per i loro dipendenti su richiesta di questi ultimi e/o delle loro rappresentanze sindacali,  onde evitare che questa misura diventi una nuova forma di esternalizzazione e di intensificazione del controllo da parte del management e, quindi, favorire una migliore conciliazione dei tempi vita/lavoro da parte del lavoratore e un alleggerimento del carico lavorativo.

Ma per rendere possibile una politica fiscale maggiormente progressiva  – sia dal lato degli investimenti pubblici, che dal lato della tassazione efficace di rendite e patrimoni – occorre limitare la libertà di movimento dei capitali all’interno dell’Unione Europea (da forme di controllo indiretto, come la tassazione delle transazioni finanziarie, a vere e proprie limitazioni come quelle ancora in vigore nel sistema di Bretton Woods), facendo leva sull’articolo 65 del Trattato di Funzionamento della UE (TFUE) che ne prevede la possibilità per motivi di “ordine pubblico e sicurezza”. Questo deve essere l’appiglio per il ritorno a forme di “repressione finanziaria” come quelle prevalenti negli anni ‘60 e ‘70, che permettano di sottrarre le politiche economiche all’arbitrio dei mercati finanziari nel determinare tassi d’interesse che, lungi dall’essere “naturali”, sono l’esito di scelte politiche. Oltre a chiudere gli spazi alla finanza pubblica, sul piano fiscale la prevalenza assegnata alla libertà di questi movimenti di capitale ha poi contribuito alle pratiche di dumping applicate da alcuni Paesi europei (Olanda, Belgio e Lussemburgo), che hanno contribuito ad ampliare enormemente il fenomeno dell’elusione fiscale. In una fase di crisi e di instabilità dei mercati finanziari come quella che stiamo attraversando, giganteschi movimenti di capitale finanziario potrebbero spostarsi attraverso un semplice passaggio di conti correnti internazionali o essere trasferiti verso holding companies nei paradisi fiscali sotto forma di investimenti diretti esteri (IDE). In questo contesto, l’Europa dovrebbe cogliere l’occasione per introdurre forme di tassazione comuni sulle transazioni finanziarie, anziché continuare a contribuire allo squilibrio a danno del lavoro. Se è certo necessario risolvere le contraddizioni strutturali che hanno portato all’esplosione della crisi dello spread e all’imposizione di programmi di austerità con il pretesto di “espiare” il debito pubblico dei paesi del Sud Europa, non sembra inopportuno al contempo aggredire la piaga dell’occultamento della ricchezza accumulata da un’esigua minoranza nei paradisi fiscali. Non vogliamo combattere o demonizzare la ricchezza: l’amiamo a tal punto da volerla socializzare.

[referente ciclo: Porco Rosso Palermo]

Facendo affiorare in superficie contraddizioni irrisolte che il dibattito pubblico era solito relegare sullo sfondo, l’emergenza sanitaria può e deve diventare l’occasione per rivedere in senso più ampio le politiche migratorie del nostro paese, a partire dalla stabilizzazione dei meccanismi di regolazione che superino la rigida (e insensata) logica del decreto flussi e da un ripensamento delle politiche del diritto d’asilo in senso inclusivo ed estensivo, all’altezza dei mutamenti epocali che hanno scandito l’età globale. In questa direzione vanno misure come l’abrogazione dei “decreti sicurezza”, il ripristino della protezione umanitaria e un sistema di accoglienza non più fondato sullo sfruttamento del lavoro del personale e lo ius soli.

Misure come queste favorirebbero, peraltro, anche la sperimentazione di nuove forme di cooperazione e di mutualismo, come principi cardine per il futuro oltre la crisi. Occorre infatti superare il binomio Stato-Mercato come unico ambito di integrazione e coordinamento della socialità: lo sviluppo di forme associative fondate sulla libertà, la cooperazione, la reciprocità, la solidarietà devono entrare a far parte di una rinnovata concezione degli spazi di vita, di lavoro, di scambio, di politica, di creatività, adatti per una vita umana degna. Noi stess*, nel rivendicare questi obiettivi, continueremo a connotare la nostra azione all’insegna del mutualismo politico: insieme continueremo a praticare la società che desideriamo mentre lotteremo per realizzarla. 

“Impossibile” è soltanto il nome che diamo alla speranza di un’alternativa quando rinunciamo a immaginarla e praticarla assieme agli altri. Insieme renderemo possibile ciò che da soli avremmo persino stentato a immaginare.