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EVERSIV3 per il 1 maggio 2024

eVERSIv3 è un’iniziativa poetica che si è svolta i occasione del nostro festival AttivAzioni, in cui  poet3 e artist3 hanno condiviso riflessioni sul tema del lavoro rispondendo a questa call:

Ogni mattina, un po’ leoni ma soprattutto gazzelle, ci svegliamo e sappiamo che ci toccherà lavorare: al nostro lavoro o a cercare lavoro o a pensare che non ne troviamo uno… Siamo stanchə di odiare il lunedì o il ritorno dalle vacanze, meglio se possiamo odiare insieme il capitalismo!
Nell’ambito di Attiv-Azioni abbiamo pensato di costruire per la prima volta questo format: eVERSIv3.

Iniziativa poetica per permettere ai versi di esprimere tutte le contraddizioni che sentiamo addosso a causa di questo sistema, della competizione, dei sogni infranti e di quelli che ci hanno insegnato a dover avere, delle discriminazioni, delle pressioni, delle aspettative, del senso di inadeguatezza, della precarietà, ma anche dell’ansia di dover lavorare per la vita, della voglia di evasione, del quite quitting, lo sfanculamento dellə capə… e di tutto ciò che vorrai dirci! L’arte è cura in un mondo che ci vuole razionali e tristi.

Il leone e la gazzella fanno i loro versi, così come in poesia, tu che VERSI fai? Chiunque può iscriversi per partecipare leggendo o performando i propri versi.

Zattera di Digiuno con voce di Daddi

Sguardi stanchi, si muovono in banchi
si illuminano a tratti
attratti dai rumori forti
ipnotizzati dai silenzi densi.

Lavoro coi pischelli
mi piace, provo a dargli qualcosa
mi piacciono i colleghi
ma li vedo solo al cambio d’ora.
Cosa vuol dire lavorare insieme
se non ci si chiede se stai bene?
Ognuno fa il suo mestiere, come riesce,
come viene, butta stimoli vediamo che succede.
Chi getta l’ancora alla terza ora;
chi ha i remi in barca ancora; 
chi spera la Santa Barbara esploda;
chi lotta e conduce l’Hispaniola da sola.
Ho smesso di sperare nel ruolo
figurati se voglio illudermi da solo.
Precario galleggio, forse andrà meglio
in acque profonde continuo il disegno
Non è l’impegno, lo stipendio
legno marcio, legno grezzo
ma cosa trovo, cosa cerco,
cosa porto dentro, porto dentro, porto… [cosa cerco]

Isola, costa
ogni tragitto ha la sua distanza,
la sua sosta.
Quanto manca, quanto conta?
Ogni relitto ha la sua speranza,
la sua forza.

Mi sento in mezzo al mare, questa cattedra è una zattera
Mi sento in mezzo al mare, questa cattedra è una zattera.
Mi sento in mezzo al mare, questa cattedra è una zattera.
Mi sento in mezzo al mare, questa cattedra è una zattera.

Improvvisazione, tecnica, studio, dedizione.
Professione professore 
dove si studia la passione?
È più che altro una relazione complicata 
da: interrogazione, definizione, 
voto, errore, correzione.

Per imparare a nuotare
non ti tiene a galla una valutazione.
Contano i titoli che leggi non quelli che hai
non quelli che hai
conta quello che dai più di quello che sai.
che sai
Vuoi dargli un paio di scarpe o una direzione?
Costruisci una strada o un’indicazione?
E che ne so io di lacci e suole?
Non sono, uno psicologo, un allenatore
non un controllore
né amico o fratello maggiore
tantomeno un genitore,
non sono un dottore né un salvatore
Poi salvare da cosa? Come?
A volte tutte ste figure a volte manco una
mezzo in aula, mezzo sui mezzi di fortuna.
È solo una metafora ma fa paura
So come fare, ma non come farò
Una cattedra è una scusa, lo so
Una zattera, io medusa, Géricault.

Una cattedra è una scusa, lo so
Una zattera, io medusa, Géricault.

Una cattedra è una scusa, lo so
Una zattera, io medusa, Géricault.

Video

Sciopero di Digiuno

Sciopero
Sciopero una parola mille azioni
Si fermano le lavoratrici e i lavoratori
Blocco dei consumi, stop ai motori
Lotto per condizioni migliori

Contro i padroni, per sicurezza e salari
per contratti e orari, per eliminare divari
Braccia incrociate in linea e nei campi
Porti aperti ai migranti porti chiusi alle armi

Non scordo chi ha lottato nel passato
L’esempio che c’hanno dato, quello che hanno conquistato
Voci dalle piazze, urla dalle strade
logistica e trasporti uniti per protestare

Sciopero della fame contro una pena ingiusta e infame
contro il sistema che tortura
spezzare ogni catena anche se dura
alziamo la testa senza paura.

La protesta non si arresta, la lotta non si processa
Finché non sarà esaudita ogni richiesta, chiusa l’ultima inchiesta
finché non avremo tutto quello che ci spetta
Sciopero, ferma tutto finché tutto non si ferma.

Trasloco di tagliente_di_fatto

Ho un mutuo da pagare ogni mese.
Ebbene sì, il governo mi ha convinta,
– con il suo mare di agevolazioni senza uno straccio di idea di Paese –
ad indebitarmi per la vita,
aderendo così consapevolmente al losco piano.
Come quella canzone degli zero assoluto
Non quella “tutturutturututtu”,
ma quella che delinea l’orizzonte di vita
a cui spaventosamente ci avvicinano i 30 anni:
“a cambiare vita, a cambiare casa
a fare la spesa, a fare i conti a fine mese
ad avere un figlio, un cane
affrontare suocera, cognato, nipoti, parenti
Tombola a Natale, mal di testa ricorrenti”…
Insomma quella vita lì,
che quando la ascoltavo pensavo
“dio che vita di merda, se divento così sparatemi”!
Esattamente la vita che mia nonna si augura per me
e che non perde occasione di citare ogni natale
con il suo corredo già fatto nel cassetto.
Che poi nonna cara, chi cavolo se le metterà mai le tue coperte ricamate,
che già trovo egocentrici quelli che mettono le iniziali sulle camice stirate,
pensa quelli che le hanno pure sulle coperte inamidate.
E oggi ho 29 anni,
un lavoro a tempo indeterminato
che dovrò continuare a fare fino a data da destinarsi,
non so neppure se avrò la pensione
e pure se l’avrò il rischio è quello di avercela troppo tardi,
così tardi che non avrò più la forza
di ubriacarmi,
di fare il giro del mondo,
di vedere mari e lande sconosciute;
così tardi che lo Stato mi darà un calcio in culo per l’ospizio,
mentre io ho passato la vita ad una cavolo di scrivania,
bramando la pensione per poter celebrare ogni vizio,
pur sapendo che si tratti di una vacua illusione da boomer.
Ho 29 anni, ho un lavoro, ho una casa, ho praticamente tutto ciò che la società si aspetta da me,
eppure continuo a sentirmi sempre vuota…
Che dramma da primo mondo eh?
Vuota, come a voler fuggire,
che qua dentro non si respira,
come a volere sempre di più e diverso.
E quando me ne accorgo mi odio,
perché so chi questo senso di insoddisfazione me l’ha messo nel cervello,
è lo stesso che mi ha riempito la vita del dito autogiudicante,
è lo stesso che costruisce le relazioni sulla strategia della tensione,
è lo stesso protagonista dell’umana atomizzazione.
Vorrei scappare da lui, ma non si può,
Mi vesto di lui, mi nutro di lui, mi ingabbio di lui, mi consumo di lui.
Alla fine vince sempre, anche se non vorresti,
Perché non c’è spazio per vite differenti,
In un sistema in cui devi lavorare per mangiare,
In cui impari i sacrifici prima ancora dell’andare in bici,
In cui vivi l’ansia della performance prima degli appassionati baci,
In cui scopri il corpo prima dalla pubblicità che dal tuo.
Non so voi, ma la mia giornata si ferma alla sensazione delle dita che sbattono sulla tastiera.
Allora a volte chiudo gli occhi, penso per contrasto a quanto vorrei fuggire,
non per conforme ribellione, ma per necessità di introspezione.
Guardarmi da fuori su una nuvola e guardare tutti voi.
Magari agli inizi degli anni 2000 quando non cantavate gli zero assoluto,,
ma “non mi avrete mai come volete voi”
e ci credevate pure.
Esattamente come me, illusi.
Cara nonna, almeno su una cosa ti ho smentito,
questa casa è solo mia, senza figli, nè marito.
Cara nonna,
almeno una cosa la so fare,
uscire presto dall’ufficio
ed iniziare a immaginare,
a costruire modi nuovi,
reti che mi portano in braccio
in una nuvola di corpi che si scioglie in un abbraccio,
corpi diversi, corpi animati, corpi vivi, corpi avvinghiati.
A che servono le nuvole
se, qui ed ora, puoi avere l’empatia?

Io Lavoro di Penelope Zaccarini

Io Lavoro
Io Lavo ora, io lavo oro, io lavo…io sporco
Orco cane, porco gatto: son matto.
Io lavoro, tu abbàio.
Abbiate almeno cura di avere in casa un caso di caos altrimenti non
capirete, non coprirete, non compierete pranzetti di parenti scontenti
Attenti a non avere sale tra i denti
Laureati non prudenti
Sole tra i venti
Che Teste dementi
Valicate da cene Accondiscendenti.
Io lavoro
Denti stretti e menti aperte.
,mentirei se dicessi ora
Io lavoro e luccico
Io riposo e abdico.
ABC dico: cose semplici
Le più complesse
“Lèsse le patate “
“Per favore”
Cameriere del lavoro,
Portatore di piatti fondi
Profondi come i fondi che non trovi quando
Il progetto è personale e l’oggetto del predicato verbale, non è per
niente banale.
Embe!? le patate per favore, a te lavoratore
Che i favori sono gli ex dei piaceri
E di piaceri sono gli attuali amanti dei prigionieri.
Ieri pensavo: oggi io lavoro, domani anche meno.
Per meno più. Per meno
Meno male, perché non c’è la faccio più.
Per più, più. Più che altro
Non ne posso fare a meno
Per più meno.
ahi, m’hamo menato. Alla fine dei conti

mi hanno inculCato
Un affare armato, Una routine ciclica e io vittima,
Me lo sono firmato
l’ accordo impestato , il contratto alienato , il colloquio mascherato.
Questo alla fine è un soliloquio
Un pensare, un penale, un penare.
Un Tentare con tinta e pastelli
Con astuzia e pennelli
Di disegnare questo mondo di castelli
Di caselli,
Autostradali, inusuali. Artificiali.
Di donargli le Ali.
Io lavoro
Ah, si? Dove? lì.
Qui. Si? Si!
La? Mah.
Chissà. Da quale parte è
La fabbrica della felicita?
Ritmo di fumo
Mi spengo e metto il pro fumo
Ritmi di giugno
Mi accendo e mi con sumo
Mi metto a step la prep, fin
alla cima del corpo,
Fino a che il cielo non sia morto
Le ferie a rapporto!
Perché a forza di forzare
Siamo diventati carne da macinare
Olmi da intagliare.
Are ere ire, l h va a dormire
E la L va a lavoro,
Ma ha l’insonnia e l’aeroforo.
Ma se sapessimo applicarE
A questa parola l’amore
Sapremmo intonare
Una canzone d’ardore

Che tiepida ( e non Lepida )
Accosta al lav oro
Il capo lavoro
i sogni d’oro
E questo ossi Moro
Che ha oasi nel foro
Sarebbe
Di coloro che lustrano e lottano
Che aggiustano e portano.
Questa parola in fame
Ha fame, di altro
Ha mangiato un sopralzo
Per andare lontana, per
Potere senza arroganza
Essere al caf con la piena riverenza.
Questa Parola
Scollata e armata
significa, semplicemente
Vai da loro: insegui i tuoi semi.
E trovati, tesoro.

Trittico del lavoro fuori dai denti di Manuela Labate

#Uno
Marci fino alle radici sono
i denti del Capo Cantiere:
Bambolina, per te in dono
venti litri di benzina!

In cambio poche storie, rigo dritta
e chiudo un occhio, e se mi comporto bene,
faccio in tempo a ritornare
da mio figlio, per Natale.

Oppure faccio in tempo
a prendere quel treno che ancora
non può correre più veloce
sul Petrace: ma che m’importa?

Lenta arrivo alla mia tavola
al mio bambino che mi chiede
se ho scattato quella foto
alla libellula azzurra del fiume.

#Due
Bianchi i denti ha il Professore ben distanziati
acuti e saldi; non gli sfugge un fiato un rigo un sasso.
Recluta allievi, pondera, soppesa, scrive:
Di rara intelligenza; ma ha fatto troppo presto
una bambina.

#Tre
I denti del Team Leader, appena chiusi gli occhi,
si mescolano dispettosi in forme aliene e
sempre cedo alla tentazione
di confondere alla sua la bocca
di un noto comico italiano.

Ma c’è poco da ridere: se ripeto a voce alta
le formule che il Team Leader ci ha insegnato
per sentirci davvero parte della sua vision,
si dispiega un esercito di ventinove piccoli soldati:
il sorriso armato di un Team Leader
che conosce la sua mission.

Un metro alla volta guadagna strada alla sua pista,
calpesta un campo un cedro un muro a secco,
ingoia un masso un sentiero un pozzo.
Quel giorno solo ha vacillato, quando un contadino
gli ha agitato contro il suo falcetto:
difendeva un campicello di piselli.

La danza dell’ irriverenza di Matilde Boero
La danza dell’ irriverenza
La si balla a piedi scalzi
In mezzo alla strada
La si balla in gruppo
Scoordinati
Scomposti
Irrispettosi
La danza dell’irriverenza
Si balla tra i quindici anni e i trenta
La si balla gridando
Contro i muri della città
Fermando il traffico in pieno giorno
Gridando versi a notte fonda
Sbagliando strada

E tutti la balliamo
Ma molti la disimparano
Perché La danza dell’Irriverenza
La si balla tra i quindici anni e i trenta
Ma è ai quaranta, ai cinquanta, ai sessanta e ai centodieci
Che la dobbiamo reinsegnare

La danza dell’Irriverenza risolverà il mondo

Finestre di Matilde Boero
Voglio
Quando mi sveglio la mattina
Aprire la finestra
E vedere il mare
Respirare
L’aria salmastra
A pieni polmoni
E voglio questo
Per il resto della mia vita
E voglio
Questo e null’altro
Che Altro è superfluo

E allora la porta è aperta
Cosa fai
Ancora qui?

Out of character di Matilde Boero
La folla
Vortica
Io punto fermo
Al margine della marea

Non riesco
Non riesco
A mischiarmi ai loro flutti
Non posso
E non voglio
Non ne faccio
Parte
Non la interpreto bene
Da sola

Vorrei saper ballare di Matilde Boero
Vorrei saper ballare
Non dico farlo bene
Dico
Farlo libera

Vorrei essere
Leggera
Me
Senza chiedere scusa
Urlare
In mezzo alla strada
Che io esisto
E che non chiedo il permesso

Vorrei ballare male
In un tram
Una musica
Che sento solo io
E come se nulla fosse
Sedere alla mia fermata

Che siamo mucchietti di materia
Che cammina su una roccia
Che gira in tondo nello spazio

Quindi che vi importa
Se per essere felice ballo
E lo faccio pure male?

Svegliatevi bambine c’è la neve (estratto dal romanzo) di Raffaella Grisotto

La mamma non ha avuto nessuna turba in tutto il periodo in cui, da ragazza, ha lavorato da Chiesa. Le è sempre piaciuto essere la più brava, e lì lo era. La sua non è un’ambizione banale, ma una gioia dal ventre, fine a se stessa. Una perla liscia al centro del sole.
Da Chiesa le ragazze facevano a gara fra chi scriveva le fatture a macchina più velocemente e senza errori. Lei vinceva sempre. Arrivava fino a quattrocento battute al minuto. Partecipò al trofeo Agnelli, e avrebbe vinto se nella foga non avesse fatto cadere la macchina da scrivere. Anche per la stenografia chiamavano sempre lei nelle riunioni con i direttori importanti.
Ma dopo un po’ Chiesa non le bastava, voleva di più. Si licenziò e fu assunta alle Ferriere, come impiegata d’officina, faceva le buste paga degli operai. Non le piaceva, era un lavoro noioso e le schede erano sporche, chiese di cambiare. La mandarono al servizio vendite, e questo lavoro le piaceva. Telefonava ai fornitori dell’azienda per sollecitare le consegne. Una volta la settimana, insieme al suo capo, andavano dal maggiore di questi fornitori per controllare che la merce fosse pronta per partire, e quando uscivano il capo l’accompagnava in un bar a bere un bicchiere di latte, per la salute, perché erano stati dentro un’officina, diceva. Quando arrivò la prima macchina da scrivere elettrica la diedero a lei sola e anche la telescrivente, era l’unica a usarla. Sarebbe dovuta diventare capoufficio, perché il suo era un lavoro importante.
Poi, un giorno, arrivò un ragazzo nuovo, diplomato, e glielo affidarono perché gli insegnasse il suo lavoro. Lei andò dal caposervizio e chiese perché. Lui rispose che, se avesse imparato bene il lavoro, quel ragazzo sarebbe diventato capoufficio. La mamma allora chiese perché non poteva diventare lei capoufficio, visto che il lavoro lo conosceva già e lo faceva molto bene.
«Per due motivi – rispose il caposervizio, – perché lei è una donna e perché non è diplomata».
«Il diploma lo prendo, e anche in fretta» disse la mamma. «Non stia lì a pensarci troppo, tanto è così» concluse lui.
Dopo qualche giorno la mamma chiese il trasferimento: “Visto che non posso fare carriera, almeno sto più vicino a casa” pensò.
Ma aveva faccia tosta, e quella storia non le era andata giù. Nel nuovo ufficio c’era un direttore Fiat, l’ingegner Bono, che una volta in cui lei non riusciva più a leggere una parola che aveva stenografato gliela aveva ripetuta, era stato gentile. Gli scrisse una lettera spiegando tutto quello che era successo, se poteva darle una mano. L’ingegner Bono la convocò nel suo ufficio e le chiese se voleva andare lavorare con lui, nella sede di corso Marconi. Lì la mamma sbagliò. Io avevo solo tre anni, lei aveva voglia di stare con me, corso Marconi le sembrava troppo lontano. Erano dodici chilometri.
Si spostò in un ufficio a Mirafiori, c’erano solo donne, la guardavano e chiacchieravano sottovoce perché portava le ciglia finte. Anche in quell’ufficio era la più brava. La capoufficio la chiamava per raccontarle i pettegolezzi, le donne con le quali aveva litigato, e lei si annoiava. La portava a mangiare il pesce, dalla pettinatrice, e le altre erano gelose. Il direttore parlava sempre bene di quella che c’era prima di lei e un giorno la riprese dicendole che chiacchierava troppo, e che quando andava a prendere il caffè faceva una pausa anche di un quarto d’ora. Allora la mamma prese tutte le lettere che aveva trascritto la ragazza precedente, poi tutte quelle che aveva trascritto lei da quando era arrivata, andò nell’ufficio del direttore, gliele mise sulla scrivania e gli disse:
«Ha visto che anche se ogni tanto chiacchiero il lavoro lo faccio meglio e più di quella che mi ha preceduto? E adesso la saluto perché mi sono licenziata e vado ad aprire una profumeria».
Aveva ventisette anni.