Di Matteo Amatori e Matteo Castello
Con il contributo di Sylvia Letizia
Crisi sanitaria e crisi economica: quale via d’uscita?
Sono passati più di cinquanta giorni da quando è stato emanato il primo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, quello dell’11 marzo, che nelle intenzioni originarie voleva “chiudere” l’Italia per il periodo di tempo necessario alla messa in sicurezza di cittadini e cittadine, intervenendo in campo economico e sanitario.
Sono passati più di cinquanta giorni dal lockdown e, nonostante il numero di morti e di contagi causati dal COVID-19 si attesti ancora su alti livelli di guardia, l’élite economica capitanata da Confindustria esercita continue pressioni per il riavvio della produzione. Una produzione che, proprio nelle Regioni maggiormente colpite dalla crisi sanitaria, si scopre non essersi mai veramente fermata, contribuendo probabilmente a vanificare buona parte degli sforzi e dei sacrifici sostenuti dai cittadini per interrompere la crescita esponenziale dei contagi.
Sul fronte sanitario il COVID-19 appare ancora come un fenomeno difficile da interpretare e governare. Si sa ancora troppo poco di questo virus: non è chiaro, ad esempio, se la curva di crescita si interromperà con l’arrivo dell’estate, se il virus ritornerà in autunno, oppure se muterà e, quindi, se la sua presenza accompagnerà le nostre vite fino alla scoperta di un vaccino o di una cura.
Il lento calo del numero di vittime e di quello dei contagi in buona parte delle regioni italiane, tuttavia, sta restituendo alle pur comprensibili angosce per la situazione economica un’attenzione prioritaria rispetto alla crisi sanitaria tuttora in corso. Il moltiplicarsi delle file davanti alle mense per i poveri o al banco dei pegni testimonia come la paura diffusa di non poter più far fronte a esigenze basiche e quotidiane come i pasti o il pagamento dell’affitto si stia trasformando in una realtà concreta.
Ecco quindi che il riavvio della produzione diventa l’unica prospettiva evocata per contenere il progressivo e rapido impoverimento generale e per fronteggiare quella che da più fonti è già definita come una crisi economica di dimensioni epocali. Una riapertura che, però, pare alimentata dalla speranza un po’ ingenua che si possa davvero ritornare ad una fase “pre-pandemica”, senza tener conto di ciò che il Paese ha vissuto in questi cinquanta giorni e delle contraddizioni strutturali che avevano preceduto questa fase emergenziale. In questo momento difficile le preoccupazioni si accavallano e si sovrappongono l’una sull’altra: di fatto, si è ancora pienamente dentro ad una pesante crisi che tiene sotto scacco la stessa capacità di immaginare il mondo “post-COVID-19”.
Nel contempo, in questi cinquanta giorni sembra essersi riattivata anche un’intensa e diffusa riflessione sulla percorribilità di strade alternative per riorganizzare l’esistente e fronteggiare in maniera coordinata e cooperativa una crisi tridimensionale (sanitaria, economica, sociale) e di lungo periodo. Crollano tabù e certezze date per acquisite, e così si creano le condizioni potenziali per un’inedita riscoperta di modi di produzione e riproduzione sociale che tengano conto dei bisogni reali delle persone, dopo che due presunte “forze naturali” (la tempesta finanziaria e l’esplosione pandemica) hanno minato in maniera irreversibile le basi del vivere sociale, aumentando sempre più insopportabilmente la precarietà delle vite di molte e molti.
Per questo crediamo che sia importante provare a ricomporre i tanti contributi specifici e diversificati entro una prospettiva condivisa, capace di delineare i margini di una nuova consapevolezza collettiva. In una fase di profonda metamorfosi politica e ideologica e di ricompattamento delle forze che vorrebbero che tutto ripartisse come prima, se non peggio, occorre evitare di procedere in ordine sparso. L’intento di questo breve contributo è quello di fornire una bozza utile alla discussione, un primo tentativo di consolidare gli elementi comuni per l’alternativa di cui abbiamo sempre più bisogno.
Superare la frammentazione: per una nuova centralità del lavoro
Questa crisi sta mettendo a nudo un’Italia fragilissima, molto più precaria di come ce la sentivamo raccontare da chi inorridiva al solo sentir parlare di “reddito di cittadinanza”. Specialmente quando si affrontano i temi che ruotano intorno al concetto di “lavoro”, esistono almeno due “Paesi” che faticano a parlarsi e che non vogliono riconoscersi come simili: da una parte c’è chi, da sempre, gode di un posto di lavoro fisso, dall’altra chi ha cambiato attività e settore lavorativo innumerevoli volte, spesso con interruzioni brusche fra un contratto e l’altro e senza tutele e sostegno al reddito. C’è chi sopravvive grazie al supporto familiare e chi, invece, non può contare su nessuna forma di solidarietà e di welfare ed è quindi costretto ad affidarsi a “lavoretti” saltuari e in nero.
Nel frattempo la classe media arranca: cresciuta all’insegna del mito lavorista che non esista dignità senza lavoro, continua a vivere la disoccupazione con un perenne senso di colpa: se non si ha un lavoro è sicuramente frutto di uno sbaglio personale, non di pluriennali politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro.
È un’Italia fragile che, però, non vuole che questo si sappia o si dica chiaramente, che si vergogna di chi chiede aiuto allo Stato (“pesando”, in fin dei conti, sui contribuenti “che lavorano onestamente”) e si espone a narrazioni create ad arte per frammentare anche sul piano culturale e ideologico un mondo del lavoro fatto a pezzi da decenni di politiche regressive: giovani contro anziani, tutelati contro non tutelati, lavoratori pubblici contro lavoratori privati, partite Iva contro forfettari, atipici contro lavoratori in nero, in un assommarsi di fratture identitarie e di competizione al ribasso.
Salvo poi essere lo stesso Paese guidato da classi dirigenti incapaci di trattenere i loro impulsi reazionari, ampiamente diffusi a mezzo stampa, da anni diretti a trasformare i diritti sociali in medaglie al merito e la loro cancellazione in colpe da espiare. Si pensi, ad esempio, ai percettori del reddito di cittadinanza che oggi vengono chiamati in causa per restituire “il proprio debito con la società”.
È infatti tema di recente dibattito la proposta di chiedere ai beneficiari del reddito di cittadinanza di integrare (dove non sostituire) il lavoro di quei braccianti stranieri, in maggioranza “irregolari”, che fino alla scorsa stagione vivevano e lavoravano in vere e proprie baraccopoli. Luoghi del nostro Paese in cui regna la più totale assenza di diritti e dove a volte, troppo spesso, si muore. Luoghi in cui l’attuale carenza di manodopera è data dalla combinazione delle misure restrittive messe in atto per limitare la diffusione del COVID-19 e da un sistema di reclutamento spesso totalmente iniquo, se non addirittura – in casi estremi – criminale. Nel sistema agricolo lo schiavismo lavorativo è infatti la prassi consueta, per riuscire a rifornire di merce “regolare” e a prezzi contenuti gli scaffali dei supermercati, della GDO e di qualche grande banco nei mercati cittadini. Emerge così il ritratto di un’Italia ipocrita e incapace di fare i conti con i suoi stessi fallimenti.
La stessa frustrazione è vissuta anche da tutti coloro che fanno parte del mondo lavorativo legato alla “cultura”: in un paese in cui il patrimonio culturale (inteso in tutte le sue possibili forme) è una risorsa fondamentale, non sono stati previsti ammortizzatori sociali sufficienti a venire in aiuto alle persone che di questo settore vivono. Di nuovo, vengono usati due pesi e due misure: il lavoro nel settore culturale rientra nell’ambito del dilettevole, più che in quello dell’utile. Per quanto sia necessario, non è ancora considerato abbastanza “degno” o essenziale.
Non c’è nessuna prospettiva di sviluppo senza il giusto riconoscimento della dignità del lavoro. Il lavoro, qualsiasi esso sia, materiale o immateriale, necessita di tutele. Soprattutto quando non è riconosciuto in quanto tale, come avviene per molte delle attività necessarie alla riproduzione sociale (lavoro di cura compreso). I diritti di un lavoratore e di una lavoratrice possono essere tutelati solo attraverso l’applicazione di un contratto di lavoro. In assenza di questo, e in assenza di un salario dignitoso, il lavoro è puro sfruttamento: non strumento di emancipazione, ma meccanismo di riproduzione di disuguaglianze sociali.
Reagire al crollo: il ruolo del settore pubblico per la riconversione produttiva, riproduttiva e ambientale
Eppure, questa Italia puritana e ipocrita sta per polverizzarsi. Sono state più di cinque milioni le domande di richiesta di aiuto economico da parte di persone che hanno dichiarato di aver perso il proprio lavoro (in particolar modo le partite IVA) a causa del Coronavirus.
Ora la domanda accennata precedentemente è più pressante: la perdita del lavoro, o la sua assenza, è davvero solo una responsabilità individuale, o si può finalmente provare ad affrontare il tema da un punto di vista sistemico? La crisi economica riproporrà nuovamente questo quesito a tutti noi.
Un crollo che in parte si è già materializzato e in parte si dispiegherà a breve, non appena molte aziende saranno costrette a dichiarare fallimento. Non basteranno i prestiti agevolati messi a disposizione dal Governo per tenere in piedi le tante piccole e micro-aziende individuali che faticavano a stare in piedi già prima della pandemia. Così come non basteranno i soldi messi a disposizione dal Governo per estendere la cassa integrazione ordinaria e straordinaria: ne serviranno molti di più per mantenere il dissesto a un minimo livello di sostenibilità sociale.
Il forte limite delle iniziative poste in essere (al netto di quelle sospensive finanziarie che sarebbero state necessarie a prescindere, visto il blocco di liquidità comunque involontario ed incolpevole) non riguarda tanto gli importi assegnati, né la forma tecnica prescelta, quanto il rischio implicito della mancanza totale di destinazione programmatica delle risorse impegnate. Così facendo si sposta semplicemente il problema finanziario nel futuro, considerando che fra 24 mesi partiranno gli ammortamenti dei capitali richiesti, con il rischio che questi ultimi si trasformino in cartelle della Agenzia delle Entrate fornendo il pretesto per il periodico condono italiano.
Per l’ennesima volta la competenza del modello di sviluppo economico è delegata alla cosiddetta responsabilità del mercato privato (banche e intermediari), per l’ennesima volta il cosiddetto aiuto di Stato interviene in modo sconnesso e senza una visione programmatica. Tra le distorsioni più eclatanti, quella di parificare sostanzialmente il lavoro autonomo a una qualsiasi PMI, ignorando le false partite IVA e il fenomeno delle esternalizzazioni, da parte delle imprese, di alcune attività “terziarizzate”, affidate sempre più a “professionisti” esterni per ridurre i costi legati alle assunzioni.
E’ assurdo, per l’ennesima volta, fare affidamento esclusivo sui prestiti e sugli investimenti del privato, sperando che siano questi ultimi a delineare uno scenario di futuro economicamente ed ecologicamente sostenibile. Questa Pandemia potrebbe invece essere l’occasione giusta per entrare nel merito degli investimenti e per dare una direzione a questi ultimi, immaginando periodi di mobilità per la riconversione professionale e una generale rimodulazione del tempo vita/lavoro (pensiamo, ad esempio, alla proposta di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario).
Questa ulteriore crisi metterà nuovamente in luce la debolezza strutturale della nostra economia. Occorrerà quindi tornare a produrre effettuando un’analisi attenta di come cambieranno i consumi post-pandemia, di quale impatto avrà la ristrutturazione dei mercati e quale sarà l’entità della frantumazione della catena di approvvigionamento globale: ad esempio, chi prima della crisi basava il proprio fatturato sull’esportazione di prodotti e servizi potrebbe ora trovarsi senza lo stesso mercato di prima.
In un contesto simile rischiano di sopravvivere solo ed esclusivamente le grandi imprese, in particolare quelle rappresentate da organizzazioni, su tutte Confindustria, dotate della disponibilità di risorse e della capacità tecnologica per intercettare una nuova domanda di mercato e mettere in campo gli investimenti necessari per ristrutturare e riorientare la loro struttura produttiva. Probabilmente saranno solo queste imprese a giovarsi della liquidità a costo zero messa a disposizione dal governo, mentre il tessuto economico composto dalle piccole e medie imprese, che tiene vivi moltissimi settori economici del nostro Paese, rischia di scomparire nel giro di un breve periodo.
A quale ripresa economica siamo dispost* a contribuire?
Pare inevitabile una cabina di regia a guida pubblica in grado di rimodellare la struttura produttiva, che promuova nuovi consumi interni e che coordini il tessuto produttivo del Paese in funzione del conseguimento di un piano economico comune di investimenti per il rilancio e la riconversione dell’economia. Senza tutto questo la prospettiva che si materializza è quella di una fase prolungata di stagnazione economica. Non basterà inserire liquidità nel sistema e sperare che il mercato faccia in autonomia gli investimenti opportuni e necessari. Serve una strategia comune, serve un’economia di piano.
Un nuovo piano economico non può però limitarsi alla produzione, ma deve necessariamente prendere in considerazione tutta la sfera delle attività riconducibili alla riproduzione e quindi al lavoro di cura, affinché “la ripartenza”, in concomitanza con il blocco o la riduzione sostanziale dei servizi esistenti (già incapaci di rispondere ai bisogni prima della crisi), non vada ad accrescere le fila dei “caregiver per forza”, tradizionalmente individuati nella popolazione femminile.
La dimensione ecologica e quella di genere non possono essere attenzioni applicate a posteriori, come elementi di decoro di un piano economico già definito, ma devono essere considerate come le basi fondanti da cui partire per una nuova strategia di sviluppo. Il punto quindi non è includere il voucher baby sitter o gli incentivi per i pannelli solari, ma elaborare un piano di riconversione delle attività produttive in senso ecologico e femminista.
Per un nuovo modello di sviluppo inclusivo: l’urgenza del dibattito
Intraprendere una nuova dinamica di sviluppo inclusivo è la sfida che abbiamo di fronte. Sarà necessario trovare nuovi strumenti per immaginare e dare corpo a una via di uscita dall’attuale crisi economica, tenendo in conto che il rilancio dell’economia non dovrà in alcun modo contrapporsi alla tutela della salute dei cittadini.
Un tale modello di sviluppo deve perseguire diversi obiettivi e deve rispondere a precise domande:
- Come tutelare tutti i cittadini e le cittadine dall’assenza di lavoro e di reddito?
- Come immaginare nuovamente una struttura produttiva in grado di rispondere alle esigenze e ai bisogni di tutt*?
- Come coniugare produzione e riproduzione sociale?
- Come promuovere un modello produttivo maggiormente inclusivo e democratico?
- Come tutelare il diritto alla salute nei luoghi di lavoro?
- Quale ruolo deve assumere il settore pubblico in economia?
- Dove trovare le risorse per dare forma alla ripartenza?
- Come fare tutto questo in un’ottica di riconversione ecologica del sistema?
È a queste domande che un movimento dei lavoratori e delle lavoratrici deve dare risposte concrete, articolandole sui diversi livelli territoriali sulla base di un quadro progettuale comune, sulla condivisione di priorità, intenti e valori.
Alcune priorità sono sempre più trasversali (pensiamo in particolare agli strumenti per finanziare la spesa pubblica degli stati come gli eurobond, o a mutualizzazioni più o meno parziali del debito pubblico), mentre su altre occorrerà un più vasto e convinto sforzo di costruzione egemonica. Pare però fondamentale un sistema di tutele universali in termini di reddito e protezioni sociali per lavoratori, migranti e disoccupati, la ricomposizione del mondo del lavoro sulla base di forme stabili di occupazione, massicci investimenti guidati dal settore pubblico e orientati alla riconversione inclusiva e sostenibile dell’economia, forme di gestione delle relazioni industriali democratiche e cooperative.
Sono questi i presupposti su cui puntare per un cambio di passo radicale, per una svolta progressiva, per una sfida al modello regressivo del “si salvi chi può”.
La misura della sfida ha dimensioni ciclopiche e il solo punto di vista nazionale non aiuta a formulare proposte convincenti: l’Italia è inserita in una dimensione europea, in quella stessa Unione che in questo periodo sta discutendo del proprio futuro. Più volte è stato detto, e in maniera particolare nel corso di quest’ultimo decennio, che l’Unione Europa ha bisogno di un deciso cambio di passo. Mentre si moltiplicano gli appelli per una maggiore integrazione e le riflessioni sugli strumenti per rafforzare i margini di manovra fiscale delle istituzioni economiche comunitarie, ci rendiamo conto che ciò di cui avremmo bisogno è un’Europa capace di promuovere relazioni cooperative e democratiche tra i Paesi membri, mettendo in discussione l’impianto monetarista e neoliberale che ha finora guidato un processo di integrazione inadeguato, iniquo e parziale.
Servirebbe una risposta unitaria in merito agli strumenti di politica fiscale ed economica da adottare in ogni singolo Paese, per superare quella che si prospetta come una delle crisi economiche più imponenti della storia del capitalismo. Ora o mai più: è il momento di ripensare completamente l’impianto comunitario per superare le innumerevoli contraddizioni che hanno accentuato lo scontro di interessi nazionali contrapposti.
Serve una visione mutualistica in campo economico per un’Unione Europea che superi la visione puramente “regolativa” del mercato, incapace di innescare processi virtuosi di convergenza “al rialzo” sia dal punto di vista degli indicatori del benessere economico che da quelli relativi ai diritti e alla vita democratica. Adesso più che mai è necessaria la cooperazione, a partire dal reperimento di risorse economiche e dalla disponibilità di liquidità finanziaria, così da assicurare a tutt* un reddito e dare corpo e gambe a un piano di rilancio dell’economia, a partire da un ripensamento radicale delle politiche fiscali.
Sul piano nazionale occorre fin da subito una politica fortemente redistributiva, in grado di riequilibrare la bilancia delle disuguaglianze sociali esistenti nel nostro Paese. Un’azione necessariamente complessa che va articolata su più livelli, tenendo conto delle diverse responsabilità e competenze territoriali. Un’azione che però va compiuta in nome di una progettualità comune e di ampio respiro, che sia capace di legare i singoli interventi entro un quadro di cambiamento complessivo, radicale, profondo.
Per questo bisogna consolidare, con l’avvio di una discussione prolungata e intensa, un dibattito costituente, una prospettiva che sappia immaginare un nuovo protagonismo del settore pubblico nel coordinamento delle attività economiche, una rinnovata attenzione al mondo del lavoro finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici, una riconversione produttiva che integri la dimensione riproduttiva, oltre a quella ambientale ed ecologica, e una riflessione sulle possibilità di riforma in senso cooperativo e mutualistico delle istituzioni europee, per non parlare di un nuovo umanismo internazionalista che sappia contrapporsi con efficacia alla barbarie dei nuovi razzismi e nazionalismi.
Di tutto questo si deve parlare ora, perché oggi più che mai sentiamo la necessità di un cambio di passo concreto, e mai come oggi sembrano delinearsi le condizioni perché le nostre ragioni possano finalmente ritrovare la forza e l’autorevolezza che meritano.