Giustizia per Giulio Regeni e Patrick ZakiIl murales di Laika a Roma, vicino all’ambasciata egiziana

Ora la verità è scritta nera su bianco.

Ora sappiamo esattamente cos’è successo in quei maledetti 9 giorni, dalla sera del 25 gennaio al 3 febbraio 2016.

Sappiamo che nella stanza 13 del primo piano di una villa nasseriana al Cairo, sede del ministero degli interni egiziano, Giulio è stato denudato, sdraiato a terra, immobilizzato con manette e seviziato. E quando il dolore si era fatto troppo forte, ha cominciato a delirare nella sua lingua madre.

Sappiamo i nomi dei colpevoli, inchiodati dalle prove: il generale Tariq Sabir, i colonelli Athar Kamel e Usham Helmi, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem. Quattro di loro appartengono ai servizi segreti egiziani.

Sappiamo dunque chi è il responsabile. E’ lo stesso responsabile della detenzione di Zaki, prigioniero dal 7 febbraio e condannato lunedì, con un’udienza farsa, ad ulteriori 45 giorni in carcere.

In quelle ore, Macron ospitava Al-Sisi a Parigi per firmare nuovi lucrativi accordi. Accordi che firmiamo anche noi, riempiendoci la bocca di diritti umani, mentre vendiamo commesse militari al regime egiziano: dopo aver piazzato due fregate dal valore di 1,2 miliardi, siamo pronti a passare un’altra volta sopra il cadavere di Giulio per quattro fregate, 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter e 24 addestratori M-346.

Fanno 10 miliardi di euro e non abbiamo nemmeno la decenza di ammettere che valgono eccome il baratto di una parola svuotata ormai di senso, quella giustizia per cui Giulio e Zaki hanno messo a rischio persino la loro vita.

Quanto stride oggi il confronto tra il loro coraggio e l’opportunismo meschino di chi ci rappresenta, che nel 2015 salutava Al-Sisi come “great leader” e oggi non ha nemmeno la dignità di richiamare l’ambasciatore in Italia? Ma non è con un opportunismo meschino dalle gambe corte che si dà fiato a un Paese spompo e si costruisce il futuro.