Bonus psicologo

Di Gianluca D’Amico e Luca Sansò

Evidentemente c’è un’emergenza sanitaria: il Covid-19 e le relative mutazioni.

A questa situazione straordinaria si aggiunge l’emergenza psicologica dovuta alle straordinarie restrizioni per contrastare il dilagare dei virus, e non solo.

Dal punto di vista psicologico, sia per le persone che richiedono un appuntamento con uno psicologo e sia per lo psicologo clinico che offre un colloquio, la situazione che da tempo stiamo vivendo non è emergenziale ma strutturale.

Proviamo a capire meglio la situazione.

In Italia c’è da tanto tempo un problema relativo alla salute mentale psicologica.

Esiste nel sistema sanitario nazionale una rete di strutture, che potremmo definire “apparato”, rivolte proprio alla cura e al trattamento della sofferenza psicologica. CSM/CPS, SerD, neuropsichiatria infantile e consultorio sono le principali strutture pubbliche presenti su tutto il territorio nazionale che permettono di usufruire di prestazioni psicologiche in maniera gratuita (ovviamente, come per gli altri servizi del SSN valgono le regole del ticket e delle eventuali esenzioni).

Questa considerazione dovrebbe bastare a dimostrare come oggi, in Italia, non è vero che se un cittadino non può pagarsi una psicoterapia o un appuntamento con uno psicologo clinico, nel privato, rimane escluso dal diritto alla salute mentale psicologica.

Da questo punto di vista, allora, il bonus psicologo è una proposta un po’ stonata rispetto allo stato dell’arte della salute mentale psicologica (ricordiamo che il bonus è pensato per poter ricevere un credito economico da spendere verso prestazioni private).

Perché allora molte persone non sono al corrente di queste realtà, già esistenti sul territorio, o non riescono per qualche motivo ad usufruirne, nonostante si tratti di servizi che gli spetterebbero di diritto?

Probabilmente la risposta è una faccenda strettamente numerica, ma non solo, e questo non ha a che fare con la pandemia.

Secondo quanto dichiarato dallo stesso presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi, Dr. Lazzari, il 16 giugno 2021, in Italia ci sarebbero circa 5.000        psicologi assunti nel SSN.

Anche nel 2018 l’allora presidente del CNOP (Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi) affermò che in Italia sono presenti circa 5.000 psicologi nel sistema sanitario nazionale.

In un articolo del 2018 pubblicato sul sito ufficiale di Altra Psicologia il Dr. Federico Zanon scrive:

“…Credo si debba restare con i piedi per terra. La sanità pubblica è un contesto sufficientemente ampio, strutturato e complesso da non richiedere la creazione di altre fantasiose figure che albergano soltanto nella fantasia degli psicologi.

Come ben scrive Giuseppe Fucilli in un articolo in cui racconta parte dalla sua esperienza di 25 anni come psicologo nell’ASL di Bari, sarebbe già sufficiente rispondere ai bisogni esistenti…

Parto da queste prime “incertezze” numeriche per prendere atto che la presenza degli psicologi nella sanità pubblica è un cantiere aperto. Da decenni.”

La situazione dunque è di precariato estremo, non tanto da un punto di vista contrattuale (anche qui potremmo aprire un ampio confronto), quanto da un punto di vista numerico.

Come si fa a parlare di bonus psicologico e di psico-pandemia quando da oltre 10 anni in Italia non si riescono ad intercettare i bisogni e le necessità dei cittadini perché di fatto tantissimi psicologi non riescono ad occupare dei posti in cui si offrono prestazioni e servizi di natura prettamente psicologica? Parlare di organico ridotto è quasi un eufemismo; si tratta, in altre parole, di una pesante mancanza dello psicologo nel pubblico.

Naturalmente non si vuole negare né sminuire il disastro sociale, economico e psicologico che gli ultimi anni pandemici hanno causato alle persone; l’obiettivo, piuttosto, è di ricalibrare il tiro rispetto al bonus psicologico, divenuto una sorta di mantra che per settimane è stato sulla bocca di tantissime persone, colleghi ed istituzioni.

In questo marasma generale si è però dimenticato di sottolineare e di insistere sul fatto che il problema era già esistente, e la soluzione più logica e probabilmente più efficace è da costruirsi nel pubblico e non nel privato.

Dunque la formula la psicoterapia non è accessibile a tutti risulta incompleta. Non è una questione economica, ma strutturale e quantitativa.

La psicoterapia non è accessibile per chi non può permettersela nel privato proprio perché nei servizi pubblici, presenti su tutto il territorio italiano, ci sono pochissimi psicologi mentre il numero delle domande è decisamente molto alto. Spesso e volentieri le domande di presa in carico tendono a sfumare lungo il percorso: situazioni non etichettate come “critiche” hanno bassa priorità, tempi d’attesa lunghissimi e scarsa fiducia nel pubblico sono alcuni degli scenari possibili.

In altre parole, c’è tanta richiesta per i servizi psicologici, ci sono anche le strutture, ma non ci sono i professionisti. Tutto questo diventa ancora più paradossale considerando che l’Ordine degli psicologi è uno tra i più numerosi e i corsi di laurea in psicologia sono altrettanto numerosi.

Secondo alcuni dati ISTAT ci sarebbero circa 6.500 laureati magistrali in Psicologica ogni anno.

Concludiamo con un dato ufficiale la cui fonte è la sintesi annuale del SISM (Sistema Informativo della salute mentale):

Le prestazioni erogate nel 2019 dai servizi territoriali ammontano a 10.944.849 con una media di 14,2 prestazioni per utente. Complessivamente il 75,8% degli interventi è effettuato in sede, l’8,6% a domicilio e il resto in una sede esterna.

Gli operatori prevalenti sono rappresentati da medici (34,1%) ed infermieri (42,6%); il 29,9% degli interventi è rappresentato da attività infermieristica al domicilio e nel territorio, il 26,0% da attività psichiatrica, il 13,9% da attività di riabilitazione e risocializzazione territoriale, il 6,5% da attività di coordinamento e il 6,4% da attività psicologica-psicoterapica; la quota restante riguarda attività rivolta alla famiglia e attività di supporto.

Un altro punto saliente:

La dotazione complessiva del personale all’interno delle unità operative psichiatriche pubbliche, nel 2019, risulta pari a 28.811unità. Di queste il 18,5% è rappresentato da medici (psichiatri e con altra specializzazione), il 7,0% da psicologi; il personale infermieristico rappresenta la figura professionale maggiormente rappresentata (44,7%), seguita dagli OTA/OSS con il 10,7%, dagli educatori professionali e tecnici della riabilitazione psichiatrica pari al 7,5% e dagli assistenti sociali con il 4,2%. Il personale part time, rappresenta il 6,0% del totale del personale dipendente e il 4,2% del totale del personale ha un rapporto di lavoro a convenzione con il DSM.

BONUS PSICOLOGICO E SALUTE MENTALE CUI PRODEST?

Partiamo dai numeri e sappiamo che sono solo numeri, certo. Ma restituiscono almeno un’idea di quale possa essere il quadro degli investimenti in salute mentale: l’Italia risulta uno degli ultimi Paesi europei nella percentuale di spesa sanitaria destinata alle malattie mentali; nel nostro Paese solo il 3,5% delle risorse viene destinato in modo specifico alla salute mentale, un valore modesto rispetto alla Germania (11,3%), Svezia (10%) e Regno Unito (9,5%) che superano ampiamente la media generale.

Su un totale di circa 110 miliardi annui investiti in salute il 3,5% di questi viene utilizzato per la salute mentale: si tratta di una somma che si aggira attorno ai 4 miliardi di euro.

Ripetiamolo: investiamo 4 miliardi di euro all’anno in salute mentale, e questi 4 miliardi rappresentano il 3,49% dell’investimento totale per la salute dei cittadini italiani (a confronto dell’11% della Germania per esempio).

Il bonus psicologico (che non sappiamo se sarà meglio chiamare bonus psicoterapeuta o bonus salute mentale o bonus qualcos’altro), inserito nel decreto milleproroghe di prossima discussione alle Camere, si assesta sui 20 milioni di euro; dieci di questi utilizzati per rinforzare le strutture pubbliche già esistenti e dieci di questi per facilitare l’accesso a sedute di psicoterapia private da parte dei cittadini. Il calcolo è semplice: se ogni cittadino potrà utilizzare 600 euro per delle sedute di psicoterapia a poterne usufruire saranno circa 16000 persone.

In sintesi: al netto di qualsiasi pandemia e al netto di qualsiasi pseudo psico-pandemia investiamo ben al di sotto della media europea (4 miliardi sembrano tantissimi ma sono molto pochi in verità) e salutiamo con favore e rinnovato spirito progressista la decisione dell’attuale esecutivo di mobilitare 20 milioni di euro. Come è possibile pensare di poter fronteggiare quella che ci è stata raccontata come psicopandemia investendo lo 0,2 % di quello che solitamente investiamo in un anno per la salute mentale (cifra già bel al di sotto della media europea)?

Questa è quella che potrebbe chiamare la questione economica/quantitativa del nostro ragionamento attorno al bonus psicologico: facendo finta che tutto il resto vada bene risulta evidente come si tratti di una cifra assolutamente insignificante rispetto alla complessità di una questione come quella della salute mentale. Il ragazzo si impegna ma potrebbe fare di più, molto di più.

Una questione politica ed epistemologica

L’idea alla base di una decisione politica come quella del bonus psicologico è evidentemente quella che facilitando il flusso di denaro tra cittadini e psicologi in regime di libera professione si possa avere un impatto di qualche tipo sulla salute mentale della popolazione e che quindi si possa arginare l’esplosione sintomatologica degli ultimi due anni causata dalla pandemia.

Riprendiamo, a questo proposito, le parole di Mark Fisher e quelle di Franco Basaglia:

(…) anziché scaricare sugli individui la risoluzione dei loro problemi psicologici, vale a dire anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi trent’anni – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La “piaga della malattia mentale” che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l’impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto. (Realismo Capitalista, M. Fisher).

(…) una volta attuata la rottura fra la sofferenza individuale e realtà sociale (quindi condizioni di vita materiali, psicologiche e di relazione), sarà semplice dedicarsi alla malattia come pure fenomeno naturale (…) e organizzare intorno ad essa la cura e la terapia. Cura e terapia che saranno tanto più impotenti, quanto più risulterà totale la frattura tra l’individuo e la propria storia. (…) la direzione delle scelte risulta sempre in perfetta coerenza con la logica e le regole dello stato borghese che si andava strutturando: direzione verso l’occultamento sistematico di ciò che, nell’organizzazione del lavoro e della vita sociale, produce sofferenza e malattia, e della conseguente frattura tra individuo e storia (Le parole della medicina, Franca Basaglia).

Attorno a questa seconda premessa ci piacerebbe costruire un discorso che non dia per scontato l’apparente ordine naturale delle cose. Non vogliamo affatto dare per scontato che gli interventi per la salute mentale delle persone e delle collettività si possano risolvere nelle delega totale di questo mandato a tecnici privati della salute mentale. La questione della salute mentale, prima di essere una questione di linee guida, protocolli, tecniche e buone pratiche è una questione collettiva, e quindi necessariamente politica. Non possiamo accettare, come tecnici della salute mentale, questo mandato politico e tecnico; accettarlo significherebbe relegare il nostro mestiere al mondo della tecnica e rinunciare al nostro ruolo di cittadini consapevoli delle contraddizioni che ci circondano.

Se la malattia e la salute sono questioni tecniche (un complesso edipico non risolto, un sistema familiare invischiante, un gruppo di neuroni mal funzionanti, un pattern comportamentale da correggere, un pensiero irrazionale, un sé o un me non integrati e tutte le menate che ci insegnano) la risposta sarà necessariamente tecnica: una serie di istituzioni e dispositivi che sulla base di eterogenee teorie scientifiche e naif intervengono appunto sugli aspetti tecnici di prima.

Lo psichiatra imposta una terapia farmacologica immaginando di ricalibrare gli aspetti chimici di un cervello che non funziona come dovrebbe; lo psicologo cerca di ristabilire un certo equilibrio emotivo e relazionale a partire dalla sua teorie di riferimento, gli educatori solitamente si occupano di aspetti funzionali e comportamentali. Tutti cercano di risolvere una certa sofferenza individuale e tutti partendo dalla premessa epistemologica/politica fallace (o quantomeno discutibile) che se una sofferenza si manifesta in un individuo la causa sarà da ricercare in quell’individuo o al massimo nel nucleo famigliare: appunto una risposta individualizzante ad una domanda che viene letta come individuale.

Se ci dicessero per esempio che c’è un’epidemia di diagnosi di depressione maggiore (per esempio a causa di una pandemia) potremmo (come le istituzioni di cui prima) ipotizzare due risposte: una tecnica che potenzierebbe i servizi di salute mentale (assumendo psicologi, aprendo nuovi csm, stanziando fondi per il privato sociale, firmando petizioni per i bonus psicologici ecc) e una politica che ci porterebbe a farci delle domande su questa epidemia depressiva.

Come mai proprio in questo momento? C’entra qualcosa col particolare momento storico? C’entra qualcosa con la particolare atmosfera sociale e culturale che respiriamo? C’entra qualcosa con il particolare modo in cui è organizzato il mondo del lavoro e l’idea di uomo che è ne è alla base? C’entra qualcosa con la logica del profitto e della competizione a tutti i costi? C’entra qualcosa con la questione ecologista? E con la questione femminista e di genere? E con tutte le altre questioni di domini delle minoranze? C’entra qualcosa con i nostri dispositivi di diagnosi? Con gli interessi di chi fa della salute mentale una merce?

Ecco, potremmo stare tra questi due poli, tra la tecnica e la politica per non rischiare di appiattirci né sulla tecnicizzazione e mercificazione della salute né sulla politicizzazione acritica e ideologica delle questioni complesse relative alla salute e alla malattia.

Come stare tra queste due polarità? Non lo sappiamo e speriamo che anche voi non lo sappiate. Le risposte non le dobbiamo costruire noi tecnici, ma noi cittadini con gli altri cittadini che ci circondano. Oscillare tra la tecnica e la politica significherebbe per noi oscillare tra il nostro sentirci e operare come tecnici e il nostro sentirci e operare come cittadini; per questo non dobbiamo rinunciare a nessuna delle due dimensioni.

Se fare salute mentale significa favorire quei processi che permettono alle persone, una volta chiarite le contraddizioni, di operare alcune scelte avendo chiari (o almeno più chiari) i propri desideri e le eventuali contraddizioni (ostacoli) tra questi bisogni/desideri e la rete sociale di appartenenza (famiglia, quartiere, vicinato, istituzioni ecc), se siamo d’accordo su questo siamo d’accordo anche sul fatto che stretto è il nesso tra la percezione di un certo stato di salute e la quota di partecipazione alla vita comunitaria che determina quello stato di salute.

Dobbiamo costruire le possibilità concrete di restituire potere alle persone, in forme individuali e collettive, di costruire pensieri e pratiche di emancipazione che facilitino la presa di parola da parte dei cittadini. Foucault diceva che la storia della follia è la storia di un lungo silenzio ed è necessario che il vuoto di questo silenzio venga riempito da chi a questo silenzio è stato ed è ancora costretto.

Non bastano le campagne di sensibilizzazione alla salute mentale, non bastano i bonus, non basta l’attivismo digitale; quello che è necessario è la costruzione di luoghi di protagonismo, luoghi dove le persone possano parlare di ciò che le riguarda, l’invenzione di istituzioni deboli e locali che facilitino il confronto e la partecipazione attiva, che facilitino la ridistribuzione della parola e del potere d’azione.