Notiamo che negli ultimi mesi c’è stata (finalmente) una crescita di interesse nel dibattito pubblico e un’accelerazione sulle proposte politiche per l’introduzione per legge di un salario minimo in Italia che, ricordiamolo, rimane uno dei pochi Paesi in Europa a non aver ancora utilizzato questo strumento per mettere un argine ai fenomeni di dumping salariale (1).
Lo stipendio medio italiano è ben al di sotto degli stipendi medi di lavoratori e lavoratrici di Francia e Germania. Nei fatti, un lavoratore tedesco ad oggi guadagna in media all’anno circa 8.000 euro in più di reddito da lavoro rispetto ad un lavoratore italiano (3).
Questa situazione è ovviamente il frutto di scelte politiche che si sono concretizzate in leggi che, a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, hanno di fatto mortificato il mondo del lavoro nel nostro Paese. Leggi che hanno agevolato la crescita dei fenomeni di precarizzazione e allargato la disomogeneità delle condizioni di lavoro in quasi tutti i settori lavorativi. L’alta frammentazione del mercato del lavoro odierno è provocata sia dal moltiplicarsi delle innumerevoli forme contrattuali “atipiche” così come dal processo di esternalizzazione di parte della produzione e dei servizi legati al processo produttivo. Attraverso appalti e subappalti, Le imprese hanno sempre di più esternalizzato parte della propria produzione ad aziende esterne che spesso, con la propria forza lavoro, applicano contratti collettivi cosiddetti “pirata”, ovvero contratti fasulli siglati tra imprese e sigle sindacali “fantasma”. Per farsi un’idea, secondo il consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro, ad oggi sono registrati 456 contratti collettivi nazionali effettivamente attivi (4). Una buona parte di questi contratti sono firmati da sigle sindacali sconosciute ai più e sicuramente non rappresentative del mondo del lavoro. In questo scenario, è evidente che lo strumento della contrattazione collettiva non è più sufficiente a tutelare un cospicuo numero di lavoratori e lavoratrici stabilmente precari nel mercato del lavoro italiano.
Nell’ultimo anno come Comunet-Officine Corsare abbiamo sostenuto la campagna di UP! Sotto 10 è sfruttamento convinti che, ben prima di questa fase in cui è esplosa l’inflazione, i salari in Italia fossero ampiamente inadeguati. Siamo inoltre consapevoli che in altri Paesi europei lo strumento del salario minimo, oltre ad essere già ampiamente rodato, è una misura indicizzata in funzione dell’aumento dei prezzi. Proprio a maggio di quest’anno, in Francia, ad esempio, è stato approvato un ulteriore aumento del salario minimo (SMIC) che ha portato il compenso minimo orario per i lavoratori e le lavoratrici di tutti i settori lavorativi a 11,52 euro lordi l’ora (5)
In Italia, ad oggi, ci troviamo con una proposta unitaria delle opposizioni più modesta rispetto a quella da noi sostenuta. Questa proposta conferma una mancanza di coraggio da parte di chi in questi anni è stato, purtroppo, attivamente complice con politiche mortificanti nei confronti del mondo del lavoro.
Siamo di fronte ad uno scenario in cui il sindacato, in maniera particolare pensiamo alla CGIL, ha mostrato finalmente un’apertura su questo fronte. Si tratta sicuramente di un riconoscimento implicito, avvenuto con troppo ritardo, che la funzione della contrattazione collettiva nel nostro Paese non è più sufficiente, da sola, a promuovere condizioni di lavoro e salari dignitosi per tutti i lavoratori e le lavoratrici nei diversi settori lavorativi e professionali in Italia. Attualmente invece, in maniera assolutamente “originale” e in controtendenza, è Forza Italia a rivendicare la bontà della contrattazione collettiva come strumento già in forza e in grado di sostenere la crescita di “salari ricchi” per lavoratori e lavoratrici. I seguaci di Berlusconi quando la contrattazione sindacale godeva di buoni o almeno sufficienti rapporti di forza erano fortemente oppositivi rispetto ai sindacati; oggi che i rapporti di forza sono nettamente favorevoli al padronato, si ergono a difensori della contrattazione. Molto più ambigua è la posizione di Giorgia Meloni (e di Fratelli d’Italia) che ha posticipato a settembre la discussione sulla misura del salario minimo e si è detta favorevole a coinvolgere il CNEL per l’elaborazione di una proposta di legge.
A prescindere dal teatrino della politica, il governo dovrà cercare di fornire un qualche tipo di risposta all’aggravarsi della situazione economica in Italia che, come nel resto d’Europa, rimane particolarmente incerta. La crescita dei tassi d’interesse imposti dalla BCE al momento non ha influito in maniera sufficiente sulla crescita generalizzata dei prezzi dei beni a consumo e, ci sentiamo di dire, ha forse aggravato ulteriormente la situazione precaria dell’economia nel mercato europeo. Ciò che è certo è che l’inflazione, come si sarebbe detto in un’altra epoca, “si sta mangiando i salari” di lavoratori e lavoratrici a fronte di una situazione già ampiamente critica.
La questione salariale in Italia è però, a dire il vero, critica da almeno tre decenni. Siamo infatti l’unico Paese europeo in cui i salari reali sono diminuiti negli ultimi 30 anni (2). Se svolgiamo un veloce confronto, lo stipendio orario Treu al Jobs act). Ciò è anche il risultato di una visione politica incapace di vedere il lavoro, e il grande bagaglio di competenze professionali e di conoscenze di lavoratori e lavoratrici, come risorsa fondamentale per la crescita del Paese. Si è preferito più spesso strizzare l’occhio al peggior mondo dell’impresa italiana e internazionale da parte degli ultimi governi. Non dimentichiamo, ad esempio, come il governo Renzi, nel 2017, direttamente sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico, corteggiava investitori esteri promuovendo il basso costo del lavoro in Italia come fattore competitivo (6). Non il know-how e l’alta qualificazione del lavoro bensì il basso costo del lavoro.
Ad ogni modo, vista la situazione critica, appoggiamo comunque, seppur con riserva, anche la proposta di legge, in concomitanza con la raccolta firme online, che vede l’azione unitaria tra PD, Movimento 5 stelle e Sinistra Italiana determinare a 9 euro lordi l’ora il minimo salariale per tutti i settori lavorativi italiani.
L’introduzione di una legge sul salario minimo in Italia sarebbe il primo passo per iniziare a dare respiro a lavoratori e lavoratrici in questo Paese che ricevono letteralmente un salario da fame. Tale misura avrebbe un primo impatto rilevante. Come evidenziato da uno studio dell’INPS di ottobre 2020 (7), con un salario minimo a 9 euro lordi si porterebbe ad un miglioramento del salario percepito a circa 4,6 milioni di lavoratori e lavoratrici. La maggior parte di questi lavoratori e lavoratrici oggi non sono coperti da alcun contratto collettivo nazionale mentre circa 1,5 milioni di loro lavorano con contratti nazionali che permettono il pagamento di salari inferiore a 9 euro lordi all’ora (vedi il contratto multiservizi, o contratti nel mondo agricolo e dell’industria dell’abbigliamento).
In definitiva, vediamo questa proposta unitaria delle opposizioni come un primo passo necessario seppur insufficiente a correggere anni di storture create, nei passati decenni, attraverso indirizzi di politiche del lavoro, giuslavoristiche e di sostegno al reddito ampiamente regressive e avvilenti per il mondo del lavoro in Italia. Un primo passo sempre più necessario e speriamo non l’ultimo.
Il nostro appoggio si situa, dunque, all’interno di una visione di prospettiva che non si esaurisce nel contenimento della povertà, generata dal modo di produzione estrattivo che ci domina, ma che cerca di ridare valore e dignità al lavoro, come è felicemente emerso nella lotta degli operai della ex GKN.
Comunet-Officine Corsare