Non è un giardino fiorito: le parole non bastano
Di Leonard Mazzone
Il contesto in cui ci muoviamo forse non è un deserto, ma di certo non è un giardino fiorito. Dopo l’avanzata delle destre sedicenti liberali a partire dagli anni Novanta, oggi le loro versioni xenofobe e razziste più estremistiche sembrano aver preso il sopravvento: il cinico ghigno con cui masse aizzate di spettatori in Italia e in Europa reagiscono al naufragio di migranti in mare non ha più nulla a che vedere con la sensazione di sollievo descritta da Lucrezio nel De rerum natura: non sorridono per essere scampati a un pericolo (che non hanno mai rischiato di correre); in molti, per ridere, hanno bisogno che qualcuno muoia.
Non siamo tutt* d’accordo nello scomodare la categoria di “fascismo” per descrivere queste derive. Di certo, però, in questi anni abbiamo capito da dove ripartire.
Sappiamo che dovremo reinventare parole e simboli per invertire la rotta: ogni lotta politica, sia essa combattuta per la redistribuzione di risorse materiali e/o il riconoscimento di differenze culturali, è anche una battaglia simbolica per la riappropriazione collettiva dei mezzi linguistici che consentono di rinominare il mondo e di prospettare un’alternativa. Rinunciare ad articolare una narrazione nostra, disposta a prendere posizione sugli eventi che scandiscono l’attualità politica nazionale e internazionale, ci condannerebbe inevitabilmente a replicare, nostro malgrado, i simboli e il linguaggio di chi, oggi, all’opposizione governa l’immaginario collettivo a destra.
Sappiamo anche, però, che narrazioni, simboli e parole non basteranno. Per renderli credibili, dovremo far parlare anzitutto le pratiche. Certo, non di buone pratiche vive la politica, come dimostra la crescita di consensi di forze politiche che in questi anni non si sono certo contraddistinte per aver cambiato le condizioni materiali di vita di cittadin* che vivono ai margini della società. L’inutilità delle buone pratiche, però, vale solo ed esclusivamente per le destre, soprattutto in fasi critiche come la nostra, scandita dall’erosione delle certezze e del benessere acquisiti negli scorsi decenni grazie al conflitto sociale fra lavoro e capitale canalizzato nelle istituzioni democratiche da organizzazioni di massa (partiti e sindacati in primis), da contraddizioni economiche (finanziarizzazione economica e disoccupazione strutturale, calo del potere d’acquisto dei salari reali e calo dei salari nominali concomitante alla crescita dei profitti), sociali (crisi del welfare statale, tagli ai servizi socio-assistenziali, alla formazione scolastica e alla ricerca) ed ecologiche del capitalismo. Queste contraddizioni sono sotto gli occhi di tutti, ma non per questo vengono nominate come tali e riconosciute nella radicalità della loro portata: se ne parla come questioni disconnesse fra di loro in un dibattito pubblico ridotto a eco di un talk show televisivo.
In una congiuntura storica in cui la crisi economico-finanziaria del 2007 continua a propagare i suoi effetti sul presente, il conflitto sociale dall’alto verso il basso non ha gli stessi costi di quello condotto dal basso verso l’alto: per chi ha qualcosa da perdere, investire frustrazioni e risentimento in un progetto politico basato sulla vigliaccheria di massa è una strategia politica meno onerosa dell’organizzazione della solidarietà. Per chi è più vulnerabile, è più facile e immediato assecondare messaggi che offrono la possibilità di allearsi con chi è più forte per escludere chi è più debole: pretendere dai padroni di casa che la torta venga distribuita meglio fra gli ospiti che siedono a tavola dopo averla cucinata è più rischioso che cacciare (fisicamente e socialmente) gli ospiti indesiderati che vorrebbero unirsi ai commensali senza essere stati invitati.
Le destre possono prosperare facendo a meno delle buone pratiche, noi no. Per questo faremo parlare le pratiche. Non perché la nostra comunità debba pagare la perdita di credibilità delle forze politiche che negli ultimi anni, in nome della “sinistra”, hanno reso impronunciabile questa parola. Non abbiamo una credibilità da recuperare, ma un’autorevolezza da conquistare. Comunet ci consentirà di combinare la storia e la progettualità culturale e politica di Officine Corsare con pratiche mutualistiche capaci di rispondere ai bisogni di quelle persone che, al momento, sono tentate di assecondare il messaggio delle destre.
Certo, non siamo noi ad aver inventato il mutualismo. Ma fino a prova contraria abbiamo osato rinnovare questa gloriosa tradizione prendendo sul serio una delle lezioni più importanti del femminismo intersezionalista: ogni gesto, ogni scelta comporta costi diversi a seconda delle condizioni materiali in cui versano i soggetti per via del genere, della razza, della classe, dell’orientamento sessuale e di altre dimensioni soggettive che, formalmente o informalmente, sono assunte come criteri discriminanti per legittimare forme di subordinazione sociale. Per questa ragione abbiamo fondato una comunità politica che risponderà ai bisogni diffusi in un territorio come Barriera di Milano a partire dalle capacità e dalle risorse di soci/e sostenitori/trici dispost* a contribuire alle casse economiche dell’associazione in maniera proporzionale al loro reddito da lavoro, patrimoniale e immobiliare.
Caso mai qualcun* non se ne fosse accorto, abbiamo già iniziato a far parlare le pratiche con questa forma di investimento materiale e simbolica.
Si tratta, ora, di avviare la mappatura dei bisogni e dei servizi già operativi in un quartiere come Barriera, per poi dare avvio agli sportelli mutualistici. Grazie a queste pratiche mutualistiche renderemo credibili le parole attraverso cui esprimeremo i nostri valori di riferimento e prenderemo posizione sull’attualità. Grazie a loro, inventeremo nuovi canali di investimento delle energie politiche attualmente disperse sul territorio cittadino e, dunque, nuove forme di aggregazione sociale e politica. Grazie a loro, punteremo a coinvolgere le persone che si serviranno dei nostri sportelli in qualità di soci/e e non di utenti.
Nel frattempo, il 5 febbraio partirà il ciclo Io sto bene, io sto male dell’animazione culturale: gli incontri che abbiamo preparato forniranno – speriamo – stimoli per il dibattito e la discussione interna e l’elaborazione collettiva della nostra comunità, consentendo di connettere l’azione mutualistica ai valori di riferimento che hanno ispirato questa comunità politica.
Deserto o non deserto, non abbiamo trascorso un intero sabato pomeriggio a discutere per costruire delle oasi protette. Abbiamo già vinto la scommessa di tornare assieme nonostante il vento contrario. Cambiare il vento sarà la nostra sfida più grande. Se fin dall’inizio abbiamo preferito il mare aperto alla terra ferma, del resto, ci sarà un motivo.